Banu Regista: Tahmina Rafaella
Banu
Regista: Tahmina Rafaella
Cast: Hajar Aghayeva, Melek Abbaszade, Zemfira Abdulsamadova, Emin Asgarov, Huseyn Babayev, Jafar Hasan, Kabira Hashimli, Kamala Israfilova, Tofik Musayev, Melisa Noi Oskui, Tahmina Rafaella, Zaur Shafiyev, Azad Sükürov, Daniz Tacaddin
Provenienza: Azerbaigian, Italia, Iran, Francia
Anno 2022
Autore recensione: Roberto Matteucci
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“Either Karabath or dead.”
L'Azerbaigian è una nazione orgogliosa, con una popolazione consapevole dei propri valori culturali e dalla volontà decisa. Una estrema varietà di lingue e di religioni si è avvicendata nei secoli: Sciiti e Sunniti, ma anche Baaismo, Zoroastrismo, Zarathustra, Mitraismo, Cazari, Cristianesimo. Con il tempo l'Azerbaigian è diventato una nazione musulmano sciita all'85% ma ha un sano livello progressista, sia per la tolleranza religiosa:
“ … è ormai una realtà riconosciuta che c'è un alto livello di tolleranza etnica e religiosa in Azerbaigian, e ciò è una fonte della nostra forza … la libertà di religione, la libertà di coscienza, sono ormai pienamente affermate in Azerbaigian.” (1)
sia per la costituzione:
“L'Azerbaigian è una delle culle della civiltà umana. La sua costituzione, tra le più avanzate del mondo islamico, separa nettamente la religione dallo stato e tutte le confessioni possono essere professate liberamente.” (2)
L'altra caratteristica tradizionale è la pertinacia a essere distaccati dalle lusinghe secolari dell'Occidente. È la fierezza del popolo azero, della sua superiorità intellettuale, del suo desiderio all'indipendenza. La sua ispirazione civile si dirige con fermezza e decisione verso la fonte della sua cultura:
“… l'Azerbaigian è un paese essenzialmente musulmano le cui proiezioni verso l'Europa sono state assai limitate, se non negli ultimi secoli e principalmente attraverso la mediazione russa e sovietica.” (3)
È la stessa scelta compiuta con dignità e sicurezza dallo spavaldo Ali, protagonista del classico azero Ali e Nino di Kurgan Said. Nella classe di Ali a Baku, il professore russo pone un dilemma:
“… Dipende dunque, in un certo senso, da voi, ragazzi miei, se la nostra città debba appartenere all'Europa progressista o all'Asia arretrata.” (4)
La risposta di Ali è ferma ed elegantemente letteraria:
“... Professore, con permesso, preferiamo rimanere in Asia.” (4)
L'azero è entusiasta della sua provenienza culturale, la vuole esaltare a differenza dell'Occidente masochista, felice a distruggere la propria.
È la premessa culturale, essenziale per comprendere la regia di Tahmina Rafaella nel film Banu, presentato alla 79. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Tahmina Rafaella ha ventotto anni. Nata a Baku da una famiglia benestante. La nonna era una poetessa e cantautrice e seguiva le mode estere: “Il suo negozio favorito era Benetton”. Tahmina Rafaella a diciassette anni si trasferisce a Los Angeles per studiare recitazione. A vent'anni ha realizzato il suo primo cortometraggio, a ventotto addirittura presenta il film Banu al più importante festival cinematografico del mondo. Una carriera rapidissima. (5)
La diversità fra la cultura dell'Azerbaigian e il background americano della regista è evidente, questo contrasto definisce il film.
Quali delle due tendenze avrà il film? Come risponderebbe Tahmina Rafaella alla domanda del professore russo di Ali? Avrebbe risposto Europa o Asia? Seguirà la tradizione di quando era bambina nell'Azerbaigian ovvero quella Occidentale da borghese dileguatasi da anni a studiare e lavorare negli Stati Uniti?
Schermo nero. Voice-over dalla radio. Sono notizie della guerra. La seconda guerra Armenia e Azerbaigianper il Nagorno Karabakh è in corso. Una conflitto sanguinoso. Grazie all'aiuto della Turchia e d'Israele, alleate dell'Azerbaigian, le truppe armene sono in ritirata. Gli azeri stanno recuperando i territori persi in precedenza.
In campo medio, una donna, Banu, guarda la camera. È in una stazione di polizia di Baku. Arriva l'avvocato. È tagliato nell'inquadratura, mai ripreso interamente. Banu vuole denunciare il sequestro del figlio Ruslan. Il marito, Javid, dal quale si sta separando, per vendetta vuole l'affidamento esclusivo e l’ha portato a casa sua.
Riconoscere i propri diritti non è facile. Dovrebbe portare delle testimonianze a suo favore, sull'essere una buona madre. Javid è un uomo influente, con molte amicizie perciò intorno a Banu ha creato un vuoto. Le vecchie amiche rifiutano di testimoniare. Il giorno del processo c'è a suo favore esclusivamente una persona, la domestica di Javid. Una vedova, il marito è morto nella prima guerra, e il figlio è stato ucciso durante la seconda. Fra le donne il dolore prevale.
Gli argomenti della storia sono significativi, riguardano la sfera pubblica e quella privata.
La guerra, i rapporti con l'Armenia, la famiglia, la separazione, la custodia dei bambini, le violenze alla moglie e particolarmente il martirio.
Ovunque le coppie litigano e divorziano. Troppo, purtroppo, in Azerbaigian per l'autrice:
“... proprio perché ho potuto vedere così tante donne che divorziavano ma che non riuscivano a ottenere la custodia dei loro figli. Ho sempre pensato quanto questo fosse strano. ...
Ma poiché [i loro mariti] avevano potere e i contatti giusti, hanno potuto ottenere l'affidamento dei figli anche se, dal punto di vista legale, nel mio paese il tribunale è tendenzialmente dalla parte della madre.” (6)
Il maschilismo influenza persino i processi giudiziali.
Le donne sono oggetto di soprusi in casa:
“Queste storie venivano associato all’abuso e alla violenza domestica.” (7)
Le violenze non sono pubbliche, sono vissute nella solitudine dell'abitazione, è il caso di Banu. Ha subito dei maltrattamenti - il motivo della separazione - ma all'esterno nessuno lo sapeva. Le amiche rifiutano di aiutarla. Nel contesto patriarcale spesso le donne ne sono parte attiva, preferiscono difendere i loro spazi, non causare dei problemi. La solidarietà femminile è esclusivamente di facciata. La regista è d'accordo ma affronta le contraddizioni con la spiegazione nel film:
“Lei chiede aiuto all’amica ma questa si rifiuta di aiutarla. Non tutte le donne sono pronte a essere coinvolte in questa lotta. Ma la donna che aiuta Banu è una madre povera che ha perso il figlio soldato. In entrambi i casi, la società è responsabile. Le donne hanno la funzione di proteggere il futuro dal circolo vizioso di conflitto e violenza.” (7)
Ai temi privati si aggiunge quello sociale della guerra. La guerra è stata sempre esistente in Azerbaigian.
Hanno combattuto per lo Zar, per URSS. Hanno combattuto contro l'URSS. Stanno combattendo l'Armenia. La loro predisposizione militare è sintetizzata in una frase del padre di Ali, sempre in Ali e Nino:
“No, la guerra è qualcosa di molto bello, non ha importanza contro chi. Una volta nella vita un uomo deve andare in guerra.” (8)
È la dignità di un popolo coraggioso, disposto a difendere i confini, la civiltà. I giovani soffrono in guerra ma non disertano. Questo attualmente accade in Azerbaigian. La regista ha forse perso il contatto con il suo paese e forse ora è impregnata di una sotto cultura occidentale, peggio ancora, di quella sotto cultura americana manipolata. Pertanto descrive il conflitto con l'Armenia come una forestiera:
“Ricordo di aver avuto sentimenti molto contrastanti sulla guerra: ne ero rattristata, ma ero anche felice per le persone in grado di tornare a casa. Ho cercato di incanalare queste emozioni contrastanti, e ho capito che potevo inserirle nel film, come contrasto, perché è il patriarcato che sta causando la guerra. È una guerra guidata dagli uomini, e le donne soffrono – stanno perdendo i loro figli. La gente è fuori a festeggiare, eppure migliaia di donne sono rimaste senza marito o figli, senza fratelli o padri.” (9)
Banu è il personaggio principale, riflettendo probabilmente la presunta temerarietà dell'autrice ma il protagonista meglio riuscito è il cattivo marito Javid. È rispettato, facoltoso, indubbiamente dovrebbe avere un ruolo nell'Azerbaigian. È brillante, educato, gentile. Un padre amorevole, pronto a tutto per il figlio, e in buona fede quando vuole escludere Banu dall'affidamento. Banu potrebbe avere una perversa influenza sulla educazione e crescita di Ruslan. In privato con la moglie si trasforma, è spietato e violento. La picchia, alternando scatti d'ira a dei gesti romantici, a dei doni costosi, è uno schizofrenico:
“Javid is a good father.”
“Being a good father isn't the same as being a good husband.”
È la divisione fra l'essere padre e l'essere un marito. È l'opinione di Tahmina Rafaella:
“L’uomo sembra affascinate all’inizio, educato e cortese. Volevo insinuare il dubbio nel pubblico, fargli pensare forse lei è un po’ folle, ma questo è come la società si relaziona a queste dinamiche. Questi uomini sono così, hanno la tendenza ad essere gentili e carismatici, non sembrano mostri, ma nelle mura domestiche si trasformano. Quest’uomo ha una psicologia complessa, è il riflesso di come ragiona la società. Il mio protagonista è convinto che sia lei sbagliata, la donna deve cambiare, lui non ha nulla di sbagliato.” (10)
È incredibile. In un film tutto al femminile, la regista riesce meglio nel personaggio emergente di un uomo. Come mai si focalizza su Javid? Quale pensiero inconscio ha l'autrice? È un lapsus freudiano?
Sicuramente c'entra la narrazione psicologica di Banu. Essa è noiosa, imbronciata, instabile, egoista, d'altronde tutti l'hanno abbandonata. La regista non riesce a creargli una emozione, una empatia.
Diversa è un'altra signora, la colf di Javid. Durante le due guerre contro l'Armenia sia il marito, sia il figlio sono stati uccisi. È massacrata dal tormento. È un'anziana signora il cui unico reddito è la sua attività da Javid. Banu nel suo egocentrismo la sevizia psicologicamente, sobillandola a tradire il suo datore di lavoro e a rimanere disoccupata (anche questa è violenza sulle donne). Ma Banu non si interessa se avrà dei problemi, come non si era interessata delle amiche chiedendogli di essergli a fianco nonostante fosse per esse deleterio.
Si apre un nuovo soggetto sensibile, il martirio: “martyr never die.”
Opinione spiegata professionalmente da Tahmina Rafaella, sottolineando il concetto di shaheed:
“È un argomento importante. In Azerbaigian, siamo in guerra dall'inizio della nostra indipendenza, dopo la caduta dell'Unione Sovietica. Ecco perché la guerra è così determinante per l'identità di tutti: tutti conoscono qualcuno che ha perso qualcuno, o hanno perso qualcuno loro stessi. E c'è questa parola "shaheed", che la gente associa a una guerra islamica e religiosa. Nel nostro paese, non si tratta di una guerra religiosa; non lo è mai stata. Ma è diventata questo. La parola "shaheed" è usata in questo modo: questa è la madre di uno shaheed, la moglie di uno shaheed. È interessante che usino quella parola invece di chiamarle con il loro vero nome o il loro ruolo. Volevo mostrare come coloro che hanno rinunciato alla loro vita vengono rispettati nel nostro paese, e anch'io li rispetto moltissimo. Ma questa idea di sacrificio... Cerco di accostarlo alla protagonista. In un certo senso, stava cercando di parlare a nome di suo figlio.” (11)
La domestica è una shaheed:
“Combattano dunque sul sentiero di Allah, coloro che barattano la vita terrena con l’altra. A chi combatte per la causa di Allah, sia ucciso o vittorioso, daremo presto ricompensa immensa.” (12)
La vecchia vedova è una shaheed, una doppia shaheed. Sta lottando contro il patimento atroce delle sue perdite, ma avrà una ricompensa immensa, speriamo attutendo il suo strazio terreno. In una bella sequenza, essa è seduta stringendo una grande foto del figlio appena morto. Banu è ai suoi piedi come in una Pietà al femminile. Si riconoscono le giuste priorità: Banu non è una shaheed, deve unicamente stare inginocchiata di fronte a essa.
La struttura esprime l'idea dell'autrice. Presentazione di Banu e di seguito dei personaggi secondari. Ma sbaglia qualcosa nel rifinire le psicologie. Il conflitto è quella con il marito, microcosmo di una società difficile per l'universo femminile. Il colpo di scena è il verdetto favorevole a Banu. Ma non è merito suo, se fosse dipeso da Banu, sarebbe stata una sconfitta netta.
Il ritmo è flebile, le immagini corali con le bandiere dell'Azerbaigian per festeggiare la vittoria sembrano ridicole, non c'è enfasi, non si vede la passione di un popolo felice. È voluto da Tahmina Rafaella? Le ha sminuite appositamente? Non ha simpatia per la vittoria del suo paese? O forse l'Azerbaigian non è più il suo paese?
Il refrain è gli aggiornamenti sulla guerra. È un intreccio intenso e volutamente negativo. Lo accompagna con i disegni sanguinolenti dei bambini. Ovvero con la sequenza in ospedale laddove Banu soccorre un militare ferito. Nella scena sui gradini di un palazzo, con un soldato abbracciato alla fidanzata prima di partire per il fronte.
L'autrice sceglie i two shoot o molti campo controcampo per riportare le discussione vivaci fra le varie donne. Ovvero per cercare di rappresentare una predominanza di Banu gira la camera intorno a lei mentre si muove. Lei deve essere la protagonista, ma è vero?
Alla fine, il dramma familiare e guerra, si concludono. Entrambe hanno vinto? Ovvero è una vittoria momentanea? Banu esce dal tribunale e osserva i gioiosi manifestanti. Una vittoria con numerosi martiri: “Martyrs never die, a nation never divides!”
La pellicola non è formale, non è realista, non è introspettiva, non è moralistica. L'atmosfera è il pensiero dell'autrice, un pensiero confusionario. E così trasfigura il film: banalmente politicamente corretto, stilisticamente monotono. Vuole solo essere mainstream, ubbidiente, senza stupire o meravigliare, sulla base dei dogmi culturali della sua recente nazione.
Questa è Tahmina Rafaella e Banu è sua copia.
I quesiti iniziali:
“Quali delle due tendenze avrà il film? Come risponderebbe Tahmina Rafaella alla domanda del professore russo di Ali? Avrebbe risposto Europa o Asia? Seguirà la tradizione di quando era bambina nell'Azerbaigian ovvero quella Occidentale da borghese dileguatasi da anni a studiare e lavorare negli Stati Uniti?”
hanno nel finale una risposta elementare, mentre lo spettatore rimasto in sala è il vero martire.
Giovanni Pensi, Le religioni dell’Azerbaigian, Sandro Teti Editore, Roma, 2012, pag. 125
Giovanni Pensi, Le religioni dell’Azerbaigian, Sandro Teti Editore, Roma, 2012, pag. 13
Giovanni Pensi, Le religioni dell’Azerbaigian, Sandro Teti Editore, Roma, 2012, pag. 9
Ali e Nino, Imprimatur editore, Reggio Emilia, 2013, Pag. 43
https://ilmanifesto.it/tahmina-rafaella-donne-sul-filo-della-speranza
https://ilmanifesto.it/tahmina-rafaella-donne-sul-filo-della-speranza
Ali e Nino, Imprimatur editore, Reggio Emilia, 2013, Pag. 101
https://ilmanifesto.it/tahmina-rafaella-donne-sul-filo-della-speranza
Corano IV, 74