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In Between Dying

In Between Dying

Regia: Hilal Baydarov

Cast: Orkhan Iskandarli, Rana Asgarova, Huseyn Nasirov, Samir Abbasov, Kamran Huseynov, Maryam Naghiyeva, Narmin Hasanova

Paese: Azerbaijan, Usa

Anno: 2020

Autore recensione: Ciro De Luca

“Hey Teacher

There are a thousand doors in front of you

And you don’t know wich one is yours to open

You don’t know what’s there

Behind the doors

You open a door. A man comes out

But he is not for you.

Open the next door

Maybe you can find your class in there”

Ayla Safan (age 6)

Hilal Baydarov, azero, classe 1987, gode di una raccomandazione che a pochi verrebbe di prendere sotto gamba. Quando Alberto Barbera, alla presentazione della selezione ufficiale della scorsa Mostra del cinema di Venezia, ha introdotto “in Between Dying”, non ha potuto che annoverare, in maniera anche particolarmente amplificata, la presenza di Carlos Reygadas tra la schiera dei produttori esecutivi e di come il film in questione avrebbe trovato posto in una tipologia di cinema dalle forti suggestioni mistiche.

L’opera di Baydarov è in effetti un film che non potrebbe trovare definizione se non nel più letterale esistenzialismo. Esistenzialismo che per principio culturale, a cui si aggiunge anche una considerevole contaminazione filmica di molti dei lavori di Reygadas, si risolve su un piano metafisico, spirituale e mistico che dell’esistenzialismo sono piena sostanza. Pienamente propedeutico alla formulazione artistica.

Tra una morte e l’altra, nel mentre la vita. Contaminazione filmica, quanto culturale, concetti che si avvicinano molto, ancora una volta, alla eco messicana. Se Reygadas tecnicamente concede molto all’immagine, sgranandola, sfocandola, per poi destrutturarne l’austerità, sempre a servizio di una suggestione diretta e assai dinamica, Baydarov si serve della medesima austerità, collezionando dei preziosi scorci in campo lungo e camera fissa, dai tratti assai naturalistici, sfoggiando un calore cromatico che sensazionalizza in egual misura la trama tra vita e morte.

Davud, protagonista della storia, è un giovane incompreso e irrequieto in cerca della sua “vera” famiglia, coloro che sente porteranno amore e significato nella sua vita. Quando nel corso di una giornata, si trova a vivere una serie inaspettata di incidenti, riemergono ricordi invisibili, vicende e preoccupazioni.

“Al centro del mio lavoro c'è l'idea della persona che cerca di comprendere le ragioni per cui vive ed è presente, qui e ora, in questo mondo. Penso a qualcuno che non sa amare e tuttavia crede nell’amore , una persona che cerca di trovare la sua vera famiglia, certa che quest'ultima porterà un significato autentico nella sua vita. Volevo visualizzare il suo percorso in qualche modo, e ne è scaturito questo film.Con la mente costantemente rivolta all'insegnamento di Bresson (prima sentire emotivamente, poi capire), Mi sono sempre concentrato sui momenti di ispirazione. Scevra da dubbi, l'ispirazione è un momento in cui le domande possono distruggere completamente la concentrazione. Mi è di grande aiuto lavorare fattivamente con un gruppo di colleghi che comprendono questo processo e lo hanno fatto completamente proprio. Inoltre sono timido e faccio fatica a comunicare con le persone che non conosco. Infatti coloro con i quali lavoro proficuamente sono per lo più la mia famiglia e alcuni amici a me molto vicini. In un ambiente come l'Azerbaijan possono esserci molte restrizioni e limitazioni , ma confesso che le amo. In qualche modo mi hanno obbligato, così come chiunque altro, a trovare nuove modalità per dare voce ai sentimenti, appunto spero che questo traspaia nei miei film”. (Commento del regista)

Davud abita con la madre, gravemente malata, la quale non ha mai voluto raccontare nulla al ragazzo della figura paterna, questione che sembra essere il punto di partenza di un’inettitudine, uno sconforto, che ne animano (perché l’anima c’è, anche se brancola nel buio) il malessere. È stanco Davud, stufo di quella donna costretta a letto, che non ama più, non rispetta, ne attende forse la morte.

Scappa Davud, minaccia di non tornare, ma sua madre, con il briciolo di forze che le restano, lo implora di tornare, di portarle la cura, non lo ha cresciuto per abbandonarsi alla vita di strada o per disonorare la famiglia. Conosce quel posto, quella landa verde o quel sentiero dove le foglie cadono copiosamente, in autunno, ne conosce i desideri, il posto del cuore.

In questo limbo, i luoghi dove la sua anima vaga, Davud è affiancato da un cavallo bianco, un donna e un figlio. Il principio di un pensiero, di un’impulso emotivo, di un ricordo, di una paura, termina e si colloca nel reale tramite le parole della donna, una donna che riprende li dove i suoi pensieri si incastrano, idealizzata lo compatisce, e da ora in poi lo accompagna alla sua ricerca.

“From now on”

Da ora in poi, un viaggio, con la morte a fare da stazioni, pedinato da una gang che tenta di catturarlo dopo un increscioso incidente ai danni di un boss malavitoso, episodio che si concede da espediente narrativo, una digressione che tenta di ancorare, nei limiti del possibile, il tangibile.

“From now on, i am a rabid”

Davud in fuga si imbatte in una casa degli orrori, una ragazza tenuta prigioniera per anni da suo padre, di cui ha subito soprusi e le più inimmaginabili malefatte. L’ha colta la rabbia, una strana fame, figlia al collo del padre, morde. La libertà assieme alla morte, la prima.

“From now on, I am just a road watcher”

Ancora una prigionia, una donna, una moglie, che per sfuggire alle percosse del marito si reinventa osservatrice, sul ciglio della strada, le auto vanno e vengono, soprattutto si allontanano. Davud è in cerca d’acqua, lei ne è colma, riuscirebbe ad assetare il più arido dei cuori, ma l’acqua non può nulla su una terra ormai bruciata. L’uomo, suo marito, che la perseguita la scova, Davud cerca di proteggere la donna, da qui una nuova presa di coscienza, la scissione tra bene e male. La ribellione assieme alla morte, la seconda.

“From now on, I am a bride”

Davud ha un cavallo bianco, Davud ha una motocicletta. Una sposa scappata dall’altare, non ama l’uomo che la sua famiglia le ha costretto a sposare, non ha amato quell’uomo, non ha mai amato. Un cavaliere e un cavallo bianco, Davud è il primo uomo che abbia mai sentito di amare, il resto non ha importanza, non potrà scappare ancora a lungo. La spada, una pistola, empatia assieme alla morte, la terza.

“From now on, I am blind”

C’è una buca vicino ad una casa di campagna, li una donna di mezza età attende che suo figlio torni per lavarla, non basta la pioggia, non può l’altra sua figlia cieca, impotente, Davud sa che la morte gli ha concesso io modo di agire sotto il suo insegnamento. La cieca sarà al sicuro, la madre purificata assieme alla morte, la quarta.

Il racconto di Baydarov è esplicitamente disseminato di allegorie, lirismi visivi e contenutistici molto vicini ad un cinema che suggerirebbe una serie di velleità che non si rivelano mai tali per l’onestà con il quale tutto il cammino di Davud riesce a dispiegarsi sui dei binari, benché formalmente indecifrabili, che portano ad un solo luogo soltanto: L’amore.

Di cosa cantano le canzoni che ascoltiamo? Cosa raccontano le storie che leggiamo? Dove ci conduce la morte e cosa ci porta a piangerla, a sfuggirle? È un mistero reso tale solo per la sua inavvicinabile comprensione o ne abbiamo da sempre ignorato il senso palese, scritto, cantato, vissuto? 

Davud sembra capirlo, la consapevolezza arriva li dove la morte agisce e ne evidenzia la vitale importanza, la sua valenza esistenziale. Li dove non arriva l’amore, arriva la morte e viceversa, una delle due arriva e per Davud forse sarà troppo tardi.

Tra una morte e l’altra, tra un’amore e l’altro.