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J. Edgar Regista: Clint Eastwood con Leonardo di Caprio e Judi Dench

J. Edgar

Regista: Clint Eastwood

Provenienza: USA

Anno: 2011

Autore Recensione: Roberto Matteucci

Dal 1972 ad oggi FBI ha avuto undici direttori.

Negli Stati Uniti è prassi politica, con il cambio del Presidente, un avvicendamento di tutti i dirigenti delle strutture economiche, giudiziarie e informative. Esempio classico: tutti gli ambasciatori sono licenziati e sostituiti con persone scelte dal nuovo leader.

Questo per un semplice motivo politico: il nuovo governo deve poter lavorare con persone di fiducia.

In Italia questo non accade, le nomenclature rimangono avvinghiate alle poltrone più dei politici; ma questo è un altro discorso.

Negli USA, questo sano principio non ha funzionato per J. Edgar Hoover, nominato direttore del FBI nel 1924. Uscirà dal Federal Bureau solo per morte naturale il 2 maggio del 1972.

Perché con Hoover questa norma è stata disattesa?

Eppure nel suo periodo di comando si susseguirono ben otto Presidenti; sia repubblicani, sia democratici, tutti uomini di potere, di grande riscontro pubblico e d’immagine: Franklin D. Roosevelt, Harry S. Truman, Dwight D. Eisenhower, John F. Kennedy, Lyndon B. Johnson, Richard Nixon. Ma nessuno di essi sconfisse il padrino del FBI.

Il motivo è semplice: J. Edgar Hoover era l’uomo più potente degli Stati Uniti, sopra della presidenza. La sua autorità derivava dalla conoscenza e dall’informazione. Nei suoi dossier si erano accumulati fatti e accadimenti di delinquenti e spie, fino ad arrivare agli uomini di governo.

Per ogni Presidente, licenziarlo avrebbe significato la fine della carriera politica e personale. “Il Presidente degli Stati Uniti ha paura” recita orgogliosamente.

Nel film J. Edgar, solo la mano decisa di Clint Eastwood poteva modellare un carattere di tale complessità e sconosciuto, anche grazie a un grande attore come Leonardo di Caprio e una potente attrice Judi Dench, nello schermo la madre di Hoover.

La storia si svolge su diversi binari, con intrecci temporali.

La struttura principale è basata sulla dettatura di Hoover della sua esistenza professionale a un poliziotto scrittore. Abbiamo dei flash back, una coerenza senza una consequenzialità temporale, ma unicamente emotiva e psicologica.

Il racconto ritorna ai giorni della sua vita, per chiudersi definitivamente con la morte.

L’intreccio è provvisto di grande maestria, non si perde mai la direzione, nonostante i passaggi repentini.

Gli anziani Hoover e il vice Clyde Tolson entrano in un ascensore per portare dei fascicoli ed escono giovani, nei primi tempi del FBI, inserendo il presente nel passato.

La storia dettata da Hoover è una mistificazione del personaggio, usata per descrivere e convogliare le tante e controverse opinioni su un personaggio di tale prestigio.

Qual è l’opinione di Clint Eastwood su Hoover?

Agli inizi della sua precoce carriera - è nominato direttore del Federal Bureau Investigation all’età di 29 anni - la sua lotta è sincera e determinatamente patriottica.

La volontà di costruire un’efficiente FBI è basata su criteri rigorosi e autonomi, le scelte del personale eseguite con canoni di corretta e di capacità. La sua fermezza a combattere il crimine è sincera e moderna; per conseguire risultati, lotta per ottenere mezzi scientifici, schedature, impronte digitali; nulla deve essere lasciato al caso.

La sua personalità si rispecchia nell’ossessione e nel decisionismo.

Combatte le battaglie con perfezione pignola e meticolosa.

Di Caprio è ripreso dal basso per avvallare la decisa personalità; mentre primi piani volitivi, riprese dall’alto, tendono ad aumentare – anche fisicamente – la grandezza della sua individualità e dello spropositato Io.

È solo lui il centro. Quando parla al congresso degli Stati Uniti, è ripreso seduto al tavolo e dietro lo sfondo, è totalmente nero, come in un quadro del Caravaggio. È una presenza fisica e pure linguistica, perché parla veloce, grazie agli studi per correggere del suo difetto.

La figura è dominante sullo schermo; Eastwood lo pone sempre nell’ottica giusta.

Per rimarcare i periodi storici si avvale o del colore, o del bianco e nero, o di giochi offuscati in chiaro scuro.

Il film è un excursus di cinquant’anni di storia degli Stati Uniti.

Tanti ricordi affiorano nella mente dell’ottantenne regista. Con delle pennellate leggere, Eastwood, ci racconta di momenti drammatici, rappresentativi a marcare l’enunciato sociale e politico del tempo. Uomini potenti e invincibili sono trascinati all’interno della pellicola e trattati con indifferenza di fronte a Hoover.

Il camino dell’ufficio del procuratore Kennedy è il luogo dell’inizio del loro incontro.

Il maestoso focolare brucia ogni energia del futuro Presidente, oramai preda della ragnatela di Hoover.

Al Capone, Dillinger, Kennedy, il generale McCarthy, Lindbergh, Nixon entrano nella storia per rappresentare la solidità dell’uomo. Si affacciano ed escono, mentre lui rimane di fronte al camino.

Il suo dominio incontrastato è solo minacciato dai mobili del suo ufficio: “I mobili sono tutti più alti di me” si lamenta con la segretaria. Nessuno deve sovrastarlo neppure l’innocente arredamento del suo studio.

Non è la storia pubblica di Hoover la favorita di Eastwood.

Perché, oltre il groviglio del suo potere, il regista ci mostra con emotività e curiosità le sue ossessioni, le stesse che hanno contribuito ad alimentare il suo mito.

La dimostrazione spetta alla madre: l’attrice Judi Dench, già cattiva e maniaca in Diario di uno scandalo.

L’autore segue il concetto di Freud: l’omosessualità nasce dall’assenza di un padre di spessore e forte, confrontandosi, invece con una madre dotata di personalità e di comando.

Se Hoover comanda gli Stati Uniti e forse il mondo, a casa subisce il rapporto di sudditanza con la madre. Mentre il padre di Hoover è intravisto, in una sola scena, decrepito, spento, dissolto nell’ombra della moglie; per poi sparire nel silenzio di tutti.

Negli ambienti familiari è la madre ad avere quell’attenzione negata agli altri personaggi fuori di casa.

Lei gli ordina: “Tu diventerai l’uomo più potente di questo paese” e il figlio obbedisce.

Hoover è un solitario, senza amici, senza affetti; intorno a lui la madre ha fatto terra bruciata.

La dittatura della donna è esagerata ed esasperata. Mette in soggezione l’aspetto umano del direttore.

Eastwood ci mostra l’uomo nella sua debolezza e nella sua contraddizione.

Hoover balbetta. Hoover è un timido. Hoover ha paura delle donne. Hoover è un omosessuale.

Quando una donna lo invita a ballare si emoziona e inizia a balbettare impacciato, in contrasto abissale rispetto alla tracotanza di fronte ad un Presidente, magari affrontato con spavalderia appena un’ora prima.

Un Presidente degli Stati Uniti non lo impaurisce, mentre una corteggiante donna mette in luce ogni paura atavica.

La madre conosce le sue debolezze. Riconosce certi desideri umani e sessuali del figlio, il quale non deve apparire, perciò lo costringerà a ballare con lei.

E lui sparisce, e disperato è costretto a chiedersi: “Io uccido tutto quello che amo.”

Il rapporto fra madre e figlio è il filo conduttore della sensibilità del personaggio.

La timidezza diventa pusillanime parlando con la madre.

Essa lo sgrida perché comincia a pronunciare confusamente e, lui – in una scena di grande potenza – si alza timido, e comincia a parlare di fronte allo specchio, recitando una litania, mentre essa seduta sul letto lo domina visivamente.

Ecco il vero Hoover, cinquant’anni di storia americana sono solo il ricco contorno.

Le stesse paure ansiose appaiono nel momento dell’incontro con il suo futuro vice e amante: Clyde Tolson. Giovane e simile, non riesce a resistergli perché rappresenta la persona da amare, come sua madre ha amato a lui. Quando Clyde entra nel suo ufficio, la personalità del direttore soccombe: eccitato, nevrotico, sudato rimane intrappolato.

Hoover corteggia Clyde in modo inusuale e divertente; lo adula con domande di lavoro e sulla sua futura posizione operativa.

L’amore è corrisposto, ma è nascosto al mondo.

La storia d’amore affiora nel film come un momento di ordine, di giustizia privata.

Il suo “ti amo” è flebile e pronunciato senza un uditorio, però esiste ed è reale. È un sussurro di desiderio e di voglia di vivere libero, con quelle due parole esprime la fantasia di volare e di uscire dalla gabbia incatenata su di lui.

La solitudine è totale ma Clyde Tolson lo arricchisce umanamente.

Se la madre appare più in alto di lui, più presidenzialista, il suo vice appare eternamente dieci centimetri indietro. E dalle spalle gli racconta la verità, solo esso può profanare il sacro tempio del suo egocentrismo. E di fronte a queste frecce di sincerità Hoover gli risponde con un bacio sulla fronte.

È il risarcimento morale a Clyde per il tanto tempo passato in ombra.

Hoover soffre di balbuzie evidenti, frutto di tante paure psicologiche e familiari.

È un collegamento al re Giorgio V del film Il discorso del re di Tom Hopper

Sembra che soffrire di problemi di pronuncia, per uomini potenti, sia un nascondiglio di tanti disagi.

La chiusura è un concentrato di miseria del corpo, con il deformato cadavere nudo nel bagno. L’uomo potente si ritrova imbruttito dalla pancia esagerata.

Le lacrime dell’amante arrivarono fino alla fedele segretaria. La notizia della morte deve rimanere segreta il tempo necessario per una pulizia definitiva di tutti i dossier confidenziali.

Con la sua scomparsa nessuno deve potersi approfittare di notizie e informazioni negative.

Chiunque ne entrasse in possesso potrebbe compiere gesti negativi per il paese, mentre lui li utilizzava solo per difendere non la sua persona ma gli Stati Uniti.

Per questo nell’anticamera dell’ufficio del Presidente, gioca con i fogli del dossier, squadrandoli al momento dell’ingresso. Gesto ripetuto diverse volte, anche da un invecchiato Di Caprio a dimostrare la continuità nel tempo del suo potere.

Potere o debolezza?

Decisionismo o timidezza?

Scientifico o ossessionato?

Il film appare con una struttura temporale eppure è la suddivisione caratteriale a prevalere.

A dominare sono le sfaccettature psicologiche e di caratteri diversi.

La grinta con cui affronta il congresso per ottenere poteri più energici svanisce di fronte al dolore per la morte della madre. Allora si piega a terra, sconfitto e indossa il vestito e i gioielli della madre. È il suo abisso umano. Il suo rapporto con essa è terminato, chi potrebbe indossare i suoi vestiti se non lui.

Nel 1965 Rex Stout scrive il racconto giallo “Nero Wolfe contro l’FBI” in originale “The doorbell rang”.

In quegli anni il potere di Hoover era stratosferico. Il sagace inventore di Nero Wolfe lo sfida apertamente, giocando sulla misura e sull’invenzione della storia.

In realtà disegna un attacco sfumato al direttore in tempi in cui nessuno osava tanto.

Il personaggio Hoover è tratteggiato ironicamente, veemente per le tante accuse cui era sottoposto. Hoover alla fine del romanzo appare di fronte alla porta di casa di Nero Wolfe e suonerà il campanello di casa per parlare con lui. Nessuna risposta, Wolfe osserva divertito dal buco della porta lasciandolo fuori.

Emergono la sfumatura e i giochi di potere degli anni sessanta su Hoover, e Nero Wolfe è lapidario, converge sul direttore tutto il pensiero comune del tempo.

Nero Wolfe domanda al cuoco Fritz Brenner:

“Sai che cos’è l’FBI, vero?”

“Certo. Il signor Hoover.”

“È quello che il signor Hoover pensa … “

Eppure dietro a questo potere e al suo pensiero c’era un uomo psicologicamente fragile, maniaca, fanatico. Un Clint Eastwood decisionista soprassiede all’aspetto politico per concederci una persona vulnerabile.