POPCINEMA.ORG

View Original

La caja - The Box

La caja – The Box

Regista: Lorenzo Vigas

Cast: Elián Gonzalez, Hatzín Navarrete, Hernán Mendoza, Cristina Zulueta

Provenienza: Messico, USA

Anno 2021

Click Here for English Version

Siamo in guerra con i cinesi.

La conflittualità figlio e padre è uno dei topos principali della letteratura mondiale. È una relazione difficile e contemporaneamente di grande amore. È il punto di partenza per percorrere strade totalmente diverse. Questa volontà implica una rivalità, un antagonismo per avere il permesso e l'approvazione. Però, l'amore fra padre e figlio non è in discussione.

Competizione e amore sono evidenziati da Sigmund Freud. La sua opinione del legame fra Hans e il padre nel libro “Casi clinici 4. Il piccolo Hans”:

Hans inoltre ama profondamente suo padre, anche se ne desidera la morte; e sebbene la sua intelligenza si opponga a questa contraddizione, egli ne dimostra concretamente l'esistenza quando colpisce il padre e subito dopo bacia il punto colpito.” (1) pag. 100

Hans è il bambino del complesso di Edipo. Ha il desiderio inconscio di eliminare addirittura uccidendo il padre. Ma nello stesso momento, come segno d'amore “bacia il punto colpito”. Non si può fuggire dalla contraddizione di questo amore, per Freud:

Hans ha due componenti: paura del padre e paura per il padre.” (1) pag. 44

Nel film la La caja, del regista Lorenzo Vigas, il confronto fra il tredicenne abbandonato dal padre e il suo ipotetico genitore è ambientato nel Messico rurale, assediato dai narcotrafficanti. La pellicola è stata presentata alla 78° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

Schermo nero, si sentono dei colpi. Campo medio, un ragazzo in una toilette batte forte con i piedi. È un colpo ritmato. Si aggiunge un altro battito, qualcuno bussa alla porta. È una fermata di autobus, la destinazione è il nord del Messico. In una fossa comune sono stati trovati degli immigranti assassinati. Ci sono molti cadaveri. Sul bus ci sono i familiari delle vittime, stanno andando a recuperare i corpi.

Hatzin è un ragazzino di tredici anni deve ritirare la cassa con la salma del padre, è stato mandato dalla nonna. Non ci sono altre persone nella loro famiglia. Parla al telefono con la nonna. È un viaggio lungo. Hatzin inizia il ritorno con la scatola sulle ginocchia. È appena partito quando dal finestrino intravede un uomo. Hatzin è certo, è suo padre, non crede nella sua morte. Scende velocemente e lo affronta. Si chiama Mario. La prima reazione di Mario è negare, reagendo con violenza, cacciarlo. Ma Hatzin ne è sicuro perciò non si perde d'animo e lo segue, gli resiste. Alla fine Mario, sempre negando, acconsente di aiutarlo. Gli insegna il lavoro e poi lo presenta alla sua famiglia. Hatzin ha però una amara sorpresa, il Mario iniziale, buono e generoso con i clandestini, è invece un malvagio sfruttatore, ladro, e infame.

La caja è il terzo film di Vigas. È la conclusione di una trilogia. Il primo fu un corto Los elefantes nunca olvidan, seguita con Desde allá, vincitore del Leone d'Oro nel 2015. In queste pellicole, Vigas tratta il rapporto fra padre e figlio seguendo i medesimi schemi narrativi. Il padre ha lasciato il bambino da piccolo. Il figlio cresce con rancore, con il tradizionale complesso edipico, amore e odio per il genitore. Vorrebbe ritrovarlo e simultaneamente vorrebbe – metaforicamente o fisicamente – ucciderlo.

La domanda è ovvia? Per descrivere con enfasi e perennemente questo disagio, quale terribile segreto nasconde il vincolo fra Vigas figlio con Vigas padre? Lorenzo Vigas è determinato e risponde con affettuosità:

Avevo un rapporto fantastico con mio padre, eravamo molto vicini. Era un pittore molto importante in Venezuela e siamo sempre stati molto legati. Quando ero un teenager, tuttavia, avevo il bisogno di diventare qualcuno perché lui era così importante e questo mi ha causato molta pressione e tensione. Forse per questo motivo ho il bisogno di girare film sulla paternità, ma mio padre mi ha trattato davvero molto bene, è morto cinque anni fa ed è stato davvero duro affrontare la sua morte, è stata la mia prima influenza. I suoi dipinti hanno avuto un impatto sui miei primi progetti, ma la sua morte non credo abbia avuto delle ripercussioni su questo film perché è stato scritto cinque anni prima che lo perdessi.” (2)

Psicologicamente, nei suoi film c'è una costante ricerca di un padre ma più probabilmente è una ricerca di amore filiale. Questa è individuabile nella emotività dichiarata fra il regista e i suoi giovani attori, sia per Luis Silva, il protagonista di Desde allá, sia per Hatzín Navarrete, Vigas esalta la sua tenerezza per loro:

“Ero in una situazione davvero difficile, e non sapevo cosa sarebbe successo: forse non l’avrebbe accettato, forse sarebbe rimasto ferito. Ho colto l’occasione. L’unica cosa che ho detto è che dovevamo dargli amore, 24 ore al giorno. Doveva sentirlo, quindi gli ho voluto bene durante tutte le riprese in modo tale che si sentisse al sicuro e amato. La reazione che ha avuto è stata di sorpresa e, per fortuna, girare l’ha, in un certo senso, liberato. All’inizio del film era un’altra persona, ed è fantastico il modo in cui è cambiato. Nessuno avrebbe potuto credere che Hatzín, che sorrideva e ballava alla fine del lavoro, all’inizio sul set non parlasse con nessuno. Fare il film, confrontare la propria storia con quella della finzione, lo ha portato a vivere una specie di catarsi e ora sono un po’ come suo padre. Mi chiama ogni due giorni nella vita reale. Ho la tendenza a sviluppare questo tipo di rapporto con i miei giovani attori come accaduto con il protagonista di Ti guardo: ora sono come suo padre, lui vive a Chicago e sono diventato una figura paterna, gli mando soldi, ci vogliamo bene… Con Hatzín l’importante è stato dargli amore, ma era un rischio per il film, avrebbe potuto modificare il suo approccio alla recitazione.” (2)

Se Desde allá si svolge nel Venezuela della crisi ma pure piena di sogni utopici, in La caja la localizzazione è il Messico, quello dei narcos, delle masse immigratorie dal sud. In comune c'è la sottolineatura di una metafora fra nazione e protagonista. Elder è Caracas, la città folle dove alla ferocia si unisce un'intensa amorevolezza. In La caja, il giovane Hatzin è la metafora del Messico. Il regista spiega questa connessione artistica:

Si tratta di una nazione che sta cercando di trovare la propria identità, è ancora ‘giovane’ rispetto ad altre realtà come l’Europa e gli Stati Uniti. Il Messico sta cercando di capire la direzione che sta prendendo, come accade a Hatzín che sta cercando la sua identità e quella del corpo che gli è stato consegnato. Penso che se il film funziona è perché c’è qualcosa che unisce tutte queste ‘scatole’, ovvero il tema dell’identità. Per me il finale è all’insegna dell’ottimismo: prende una decisione, e l’individuo può decidere dopo aver affrontato tutto, persino delle decisioni difficili e terribili. Di solito sono molto pessimista nei miei film e questo, invece, è particolarmente ottimista.” (2)

Hatzin è giovane, il Messico è giovane, l'indipendenza è del 1821. Il Messico deve convivere con un vicino ingombrante e arrogante. Hatzin ha lo stesso problema. È solo, pensa di avere trovato un padre, il quale si dimostra ingombrante e arrogante come il confinante chiassoso del Messico. Il finale per l'autore è ottimista e lo sarebbe anche per il Messico se volesse liberarsi da chi si crede superiore.

Sul Messico, Lorenzo Vigas entra nel particolare, nell'ambiente dell'immigrazione, dello sfruttamento dei lavoratori, trattati come schiavi:

Si tratta di una realtà orribile di cui stavo leggendo mentre scrivevo la sceneggiatura. Ho letto le storie delle maquiladoras messicane, di come delle persone sono scappate e hanno avvisato la polizia che ha poi trovato tantissime persone che erano rimaste imprigionate per 20 anni per lavorare gratis e non avevano il permesso di uscire, come degli schiavi. Ho pensato che dovevo girare un film su questa situazione. All’inizio pensavo che avrei mostrato queste persone che non potevano uscire e la ragazza sarebbe fuggita e poi si sarebbe suicidata. Poi mi sono reso conto che non tutte le maquiladora sono così: ce ne sono alcune che hanno delle condizioni davvero buone per i lavoratori. Quello che mostro nel film si posiziona quindi a metà tra queste due situazioni, ma è vero che ci sono delle condizioni di lavoro davvero dure e le persone vengono sfruttate per molte ore.” (2)

È l'elemento sociale, l'aspetto duro e dirompente della pellicola. La vita dei clandestini non è facile, e chi cerca di ribellarsi, di ottenere il giusto, quello promesso, è soppresso crudelmente. Mario ha una abietta responsabilità di quel mondo crudele. Hatzin non capisce e, come Elder, deve per lealtà e amore risolvere la questione del padre vero o finto che sia.

Hatzin oltre essere una metafora, è un ragazzino chiuso, introverso. Ci vuole del tempo prima di vederlo sorridere. È sempre in silenzio, ha delle pause. Il volto è triste, si legge un passato complicato. Però non si arrende, è cocciuto, intelligente. Potrebbe sembrare autodistruttivo per il gesto rabbioso su una donna, ma nel finale comprende la realtà, riprende la sua cassa e torna alla sua tormentata esistenza nel suo villaggio.

Mario ha una schizofrenia narrativa. Nella prima parte appare altruista, gentile e premuroso con gli immigranti. Li aiuta e li accompagna a lavorare nelle fabbriche della zona. Ma era una finzione. È esclusivamente uno spregiudicato commerciante di esseri umani. La sua disponibilità benevola sparisce subito. Il suo compito è di verificare se sono adatti al lavoro. Deve scartare gli inadatti e distruggere le teste calde. In questa maniera utilizza Hatzin. Lo ospita a casa poiché è capace e fedele ma soprattutto può plagiarlo con la scusa di essere il padre. Da ignobile coglie la debolezza di Hatzin, della sua bramosia di avere un padre. Pertanto usa questa sua fragilità per spingerlo a realizzare atti spregevoli.

Mario è il male assoluto: cinico, corrotto, spietato, empio, irascibile. È perfetto, come diceva Hitchcok: “... più riuscito è il cattivo, più riuscito sarà il film.” (3)

Alcune sequenze hanno una simbologia sociale e introspettiva.

L'abitudine al dolore, l'indifferenza ai massacri, la freddezza della burocrazia. “Firma qui” sono le uniche due parole dell'addetto allo sportello mentre consegna la cassa a Hatzin.

I dialoghi fra Hatzin e Mario. “Es mentira” dice Hatzin e per la prima volta gli sorride. Parlano come padre e figlio.

Hatzin ha la speranza di aver trovato il padre: si toglie le scarpe e paragona il suo piede nudo con quello di Mario per scoprire se ci sono delle somiglianze.

La fase successiva è la scoperta dei loschi intrallazzi di Mario. Insieme seppelliscono i morti della fabbrica nel deserto: “Chi è?” “È meglio non saperlo”.

L'ultima sezione è la presa di coscienza. Hatzin entra in conflitto con Mario, arriva lo schiaffo. Lo schiaffo è un leit motif nei film di Lorenzo Vigas. Il ceffone è diventato un reato penale, nel passato era una maniera comunicativa per avvicinare le generazioni. Questo accade in Vigas. La rabbia aggredisce il padre e colpisce il figlio per affermare sua superiorità educativa. Il figlio ne rimane colpito non solo materialmente. In Los elefantes nunca olvidan il padre schiaffeggia il figlio mentre vuole sparargli, stabilendo la sua supremazia morale. In Desde allá, Armando picchia Elder per incitarlo ad attuare un delitto. In La caja, lo schiaffo è l'origine di una catarsi molto più lunga. Hatzin si smarrisce nella tempesta di neve. Rischia la vita. Ma salvato in extremis, ha capito, ha scelto oculatamente: è ora di lasciare Mario alla sua subdola esistenza e tornare a casa.

Il film procede quindi con punti di rilevo classici, già conosciuti ma le loro chiusure non producono attenzione o stimoli. Nonostante gli argomenti della storia, le aspettative mancano di sviluppo.

Il ritiro della cassa, l'inseguimento del sedicente padre, l'affetto iniziale, il seguente gesto d'amore, e il ritorno dalla nonna, sono legati debolmente. La regia è pulita ma non si concretizza in una tensione razionale e psicologica come in Desde allá. C'è razionalità nelle inquadrature, nei grandangoli dei paesi messicani con gli emigrati, la stazione, l'autobus. La camera è continuamente su Hatzin ma con sentimento e discrezione, la soggettiva è dalle sue spalle come se qualcuno lo proteggesse.

I dialoghi hanno delle lunghe soste, i dettagli spesso sono conformisti, come il rumore dei passi su sfondo nero con la luce della luna. Ovvero i profili riflessi sullo specchietto. Le lunghe strade in campi lunghissimi spingono la visione oltre la logica del regista.


  1. Sigmund Freud, Casi clinici 4. Il piccolo Hans, Biblioteca Bollati Boringhieri, Torino, I edizione 1976, ristampa gennaio 2009

  2. https://www.badtaste.it/cinema/interviste/lorenzo-vigas-la-caja-e-un-film-ottimista-sul-tema-dellidentita-venezia-78/

  3. François Truffault, Il cinema secondo Hitchcock, I edizione, Il saggiatore, Milano, I edizione, 1997