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Pieces of a woman – Pezzi di donna

Pieces of a woman – Pezzi di donna

Regista: Kornel Mundruczo

Cast: Vanessa Kirby, Shia LaBeouf, Sarah Snook, Molly Parker, Iliza Shlesinger, Ellen Burstyn, Benny Safdie, Jimmie Fails, Vanessa Smythe, Sean Tucker, Noel Burton, Domenic Di Rosa, Tyrone Benskin, Dusan Dukic

Paese: Canada, Ungheria

Anno: 2021

Autore recensione: Ciro De Luca

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Potrebbe definirsi, a questo punto, un rincasare. Li dove, fratello e sorella, nell’emanciparsi e poi spezzarsi per la costruzione di quella casa su di una palafitta, nel forse più celebre lavoro di Mudruczo (Delta), qui poi tra le mura del suo stesso nido, nel covare, cogliere (gesto che chiuderà un’altro cerchio), dare alla luce le ombre.

Nel mentre, le due precedenti opere del regista Ungherese hanno suscitato non pochi dubbiosi pareri, forse per non aver confermato le premesse di stampo pseudo contemplative del suo inizio carriera, o più concretamente per un disequilibrio di prosa che effettivamente non è mai parso del tutto ispirato.

La famiglia, qui presente come ai sui fortunati esordi, non ritrova però il suo completo riflesso sulle costruzioni cinematografiche di allora. 

Siamo alla prima prova in terra statunitense per Mudruczo, terra che da sempre abbraccia un respiro universale, chiaro riferimento, tra gli altrettanto chiari che si rincorrono per tutta l’opera, ad un racconto che parte dal privato, da un dramma autobiografico tra i più viscerali al quale poter affidarsi, per dischiudersi in seguito su dei moniti, allegorie, chiare metafore di un dolore, di un senso, disgregazione. Forse un gioco, per lo spettatore, che a fine visione ha una questione ben chiara da mettere in ordine, questi pezzi di donna che, come un puzzle dai tasselli grossi e non così numerosi, sono di già chiara visione ancor prima di spianarne a piena immagine il soggetto. 

Martha e Sean Carson, una coppia di Boston, sono in procinto di avere un bambino. La loro vita cambia irrimediabilmente durante un parto in casa, per mano di un’ostetrica confusa e agitata che verrà accusata di negligenza criminale. Comincia così un’odissea lunga un anno per Martha, che deve sopportare il suo dolore e al contempo gestire le difficili relazioni con il marito e la dispotica madre, oltre che confrontarsi in tribunale con l’ostetrica, divenuta oggetto di pubblica denigrazione. 

“È possibile sopravvivere dopo che si è persa la persona che più si amava? A che cosa ci si aggrappa quando sembra che non ci siano più appigli? Mia moglie ed io volevamo condividere con il pubblico una delle nostre esperienze più personali attraverso la storia di un figlio non nato, nella convinzione che l’arte possa essere la miglior cura per il dolore...” 

Sean (Shia LaBeouf), operaio edile, impegnato nella costruzione pubblica di un imponente ponte al centro di Boston è un uomo che da sfoggio sin da subito alla sua caratterizzazione. Virile, infaticabile e pieno, pieno di quella attesa che lo riempie ancor più di amore verso Martha, che porta in grembo suo figlio. Quel ponte che, scandirà la narrazione, accorcerà le distanza di molti, ma nel divenire ne allontanerà di altrettanti.

Martha, alle prese con una gravidanza lieta, colma di bellezza  (quella di Vanessa Kirby definitivamente consacrata nuovo astro nascente delle file hollywoodiane), decide di fruttare l’amore con un parto a domicilio, preparato per mesi con la sua ostetrica di fiducia.

Kornèl regista, Kata, sua moglie, alla scrittura. I due si trasfigurano attraverso il mezzo cinematografico e danno pieno senso alle due parti. 

Impetuoso lui che, in apertura, decide di mettere in scena il parto attraverso un piano sequenza vorticoso e vibrante. Piano sequenza che è da considerarsi la quintessenza di espressione, pedìna i due, poi tre, poi quattro. Le acque di rompono, si soffre, la gioia e la preoccupazione. Arriva l’ostetrica, il disappunto, una sconosciuta, non è lei che ha preparato Martha al parto, rassegnazione e poi la fiducia. Qualcosa va storto, il bambino sembra incapace di venir fuori, c’è bisogno di aiuto, la disperazione, anacronistica, di un parto in casa nell’era dell’ipertecnologico. Il miracolo si compie, i due sono genitori, per pochi minuti, di un bambino viola.  Da qui in poi, pezzi di donna.

È qui che Mundruzcó ridimensiona il suo estro, parte un’altra storia che non tornerà a scontrarsi sui corpi dei suoi personaggi. I primi trenta minuti di film resteranno li, preludio di un storia che si servirà ben poco del sangue, del sudore e del movimento. No, non parliamo di imposizione di flemma o di un cinema che decide di affidarsi ad un compassarsi di genere, bensì cede il passo ad una scelta del femminile, nel raccontarsi, che suggerisce una dignità incrollabile, stoica, che mette a servizio della sua parafrasi icone e metafore, di comodo accesso. 

Pezzi di donna come pezzi di mela. La mela è probabilmente la figura che più ricorre come strumento di comunicazione iconografica, la mela della prima donna ed i suoi semi, i semi cui Martha vorrà piantare in casa per tentare di fruttare nuovamente. Il seme che rifiuta da Sean, disperato e messo al margine di una figura adultera. Il frutto viola che vuole essere donato alla scienza, per seminare ancora, raccogliere, accogliere.

Non sono esenti momenti di una certa tensione emotiva, poi celermente fisica, nella vita di coppia, che ridestano al meglio l’economia del lavoro, ma che molto spesso sono esiliati a ruolo marginale di intervalli che, tra una metafora e l’altra, non fanno rimpiangere la natura facile meditativa del racconto. Parentesi di un’impatto difficile da trascurare e che rendono giustizia ad una verità necessaria, di pari fascinazione.

Poi ponti, a detta della madre di Martha (Ellen Burstyn) da bruciare e quel ponte, in costruzione, che ogni mese è sempre più vicino al suo terminare. Ponti in divenire, ponti che crollano.

Il ponte tra Sean e Martha, inevitabilmente, cede.

Esorcizzare il dolore attraverso l’arte è stato il tentativo dei due coniugi autori, ma ci viene da chiedersi se questa arte non sia stata erroneamente tradotta in “artefatta” o per essere più chiari, metterla li alla mercè di un’analisi semplice da sezionare, studiandone la valenza emotiva attraverso chiare ragioni e terminare li, col dolore estirpato e verde tutt’attorno.

Le sensazioni sotto epidermiche hanno bisogno di un flusso, forse, più carico di sangue.