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Shabhaye Zayandeh – rood - The Nights of Zayandeh – rood Regista: Mohsen Makhmalbaf

Shabhaye Zayandeh – rood - The Nights of Zayandeh – rood

Anno: 1990

Regista: Mohsen Makhmalbaf

Provenienza: Iran

Autore: Roberto Matteucci

73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

“Anch’io odio tutti gli uomini.”

L’avventura del negativo di Shabhaye Zayandeh – rood (The Nights of Zayandeh – rood) dell’iraniano Mohsen Makhmalbaf potrebbe essere il soggetto di un film di azione. Fino a pochi anni fa, il cinema aveva una materialità fisica, limitata e facilmente individuabile. Si poteva eliminare un film attaccando proprio l’oggetto fisico: il negativo. Anche in Italia accade qualcosa di simile per Ultimo tango a Parigi, ma nulla di comparabile con le disavventure di Shabhaye Zayandeh – rood (The Nights of Zayandeh – rood).

La rivoluzione islamica in Iran inizia nel 1978. L’anno successivo lo Scià lascia il paese e qualche mese dopo ritorna dall’esilio Khomeini.

La sanguinosa guerra con Iraq è del 1980 terminata nel 1988. Guerra sanguinosa, con numerosi morti in Iran, soprattutto fra i tanti giovani lanciati in battaglia senza nessun addestramento.

Nel 1990 il regista Mohsen Makhmalbaf gira il film di 100 minuti.

Alla censura iraniana non piace e decide, nonostante le proteste degli autori, di tagliarlo di 25 minuti. Mostrato con successo a un festival in Iran, la censura ritornò sulla propria decisione e la accorciò di altri 12. Rimasero 63 minuti su 100.

Ma c’è altro. Lo stesso regista afferma:

“Da ultimo, il leader supremo iraniano volle vedere il film. Lo guardò nel suo ufficio in una proiezione privata. Poi lo accusò di essere contro gli obiettivi rivoluzionari e di rappresentare una minaccia alla sicurezza nazionale.” [i]

Il leader supremo era l’attuale Ayatollah Ali Khamenei, il quale emette la sentenza finale e categorica: ergastolo per il negativo con segregazione a vita nell’archivio del comitato della censura.

Il seguito è ancora più avvincente, diventando un intrigo internazionale. Il regista lo racconta, il negativo del film nel 2016 fu trafugato dall’archivio, nascosto e clandestinamente trasportato fuori l’Iran per essere consegnato al regista. Il fatto più emozionante è pensare che qualcuno in Iran abbia rischiato la vita per salvare una pellicola.

La coinvolgente avventura, piena di colpi di scena, ha un unico problema, la pellicola asportata è di solo 63 minuti, il resto è scomparso per sempre, ma non si può mai dire.

L’autore ottiene di proiettarlo alla 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

È il racconto di una famiglia prima e dopo la rivoluzione.

È una famiglia borghese, un professore universitario di antropologia, vive in una bella casa, con la moglie e la figlia studente e suonatrice di pianoforte.

All’università il professore illustra il suo concetto antropologico dell’Iran. Lo spiega con dovizia di particolari a un attento auditorio di studenti. Ovviamente la sua idea ha una valenza politica portando molti guai al professore e alle persone vicine.

Secondo il professore i problemi dell’Iran non sono da assegnare al governo ma all’antropologia della violenza dell’Iran stesso. Bisogna intervenire sulla cultura ancestrale per ottenere una società migliore: “Non amo la tirannia ma nemmeno la democrazia.”

Può generare unicamente guai il suo comportamento perché scontenta entrambi. Se uno sceglie una fazione, ha un solo nemico. Nel caso del professore i nemici sono due, perché attribuisce la colpa a qualcosa di non individuabile e non personalizzabile. Sembra che non si voglia schierare, la sua idea è contraria al concetto d’intellettuale integrato.

Il professore mantiene l’opinione anche dopo la rivoluzione. La conseguenza è tragica, aveva guai con lo Scià, e avrà guai con Khomeni.

A causa di un misterioso incidente automobilistico la moglie rimane uccisa e il professore costretto alla sedia a rotelle. La figlia è rimasta ad aiutarlo. Essa lavora all’ospedale come psicologa in un ambulatorio ospedaliero, dove arrivano le persone salvate da un suicidio.

Il risultato è passare da una dittatura all’altra, dalla speranza sociale della rivoluzione a una controrivoluzione altrettanto crudele. Non c’è differenza fra Reza Pahlavi e Khomeni.

Prima il professore aveva una famiglia, un lavoro, ora si trova su una sedia a rotelle, scoraggiato, depresso, solo. Gli è rimasta la figlia anch’essa delusa dalla vita “Non mi piace per niente essere una donna.” Quello delle donne, quando si parla di una società islamica, è la questione più eclatante e differente.

Il film ha una crudeltà di fondo, una volontà a confrontarsi proprio con la tesi del professore antropologo. La ragazza caccia il suo spasimante, un ragazzo su una sedia a rotelle, profondamente innamorato: “Ti sposerò quando potrei di nuovo camminare.”

Il film è pieno d’immagini ricercate, volute, le quali segnano le differenze fra le due fasi della storia: le foto dello Scià, poi quelle dell’Ayatollah, i volti delle ragazze senza veli e poi quelle coperte. Perfino il comportamento degli studenti è diverso ma soprattutto sono le scene dell’ospedale a segnare l’epoca. I poveri disgraziati arrivano dopo aver tentato il suicidio, ancora sotto choc, sotto pressione, sia per i tanti problemi, sia per non essere riusciti neppure a uccidersi. La figlia oramai affronta con cinismo i malcapitati.

È una ruota di scontenti, il professore è il centro del dolore, ma forse il suo modo di vedere la vita era sfuocata dall’inizio. La cattiveria e scoraggiamento ora lo accecano, dalla sua sedia a rotelle è incapace di urlare il proprio odio. Il professore è il simbolo di una nazione problematica.

Le parti mancanti erano soprattutto dialoghi, come conferma il regista:

“Ogni dialogo che non piaceva loro è stato cancellato, ogni scena che non piaceva loro è stata cancellata, da parti diverse di alcune scene ad altre scene tagliate completamente. Ma la cosa fantastica è che comunque la storia così funziona comunque, anche se mancano tutte quelle parti.” [ii]

È un peccato perché sui dialoghi il film è basato. Gli insegnamenti del professore sono ricchi di spunti umani. Si può essere in disaccordo ma le parole escono credibili dal professore e possono aiutare a comprendere una società oppressiva. Lo stesso atteggiamento ha la figlia. Essa ha un pubblico limitato, uomini e donne che hanno tentato il suicidio. A essi spiega le motivazioni, spesso con limitata convinzione. La domanda perché ha tentato di uccidersi rimane un vuoto, forse da cercare antropologicamente come avrebbe insegnato il padre.

[i] http://www.labiennale.org/it/cinema/news/19-08.html

[ii] http://quinlan.it/2016/09/10/intervista-mohsen-makhmalbaf/