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Zerzura Regista: Christopher Kirkley

Zerzura

Regista: Christopher Kirkley

Cast: Ahmoudou Madassane, Ibrahim Affi, Zara Alhassane, Habiba Almoustapha, Rhissa Elryin, Rhissa Koutata, Guichene Mohamed

Anno: 2017

Provenienza: USA

Autore Recensione: Roberto Matteucci

“L'oro è qui prendilo”

Zerzura è un luogo immaginifico appartenente alla tradizione africana. C'è un legame fra una rigogliosa oasi e la città fantastica, infatti è: “Un ipotetico paradiso fatto di palme rigogliose e di sorgenti gorgoglianti … da qualche parte nelle ardenti distese desolate del deserto libico. “ (1)

Nasce come sogno, un desiderio, delle farneticazioni nelle attraversate nel deserto, essi vagheggiano una oasi, un luogo di rinfresco, mentre sono intontiti dal calore e dal sole.

Perciò Zerzura esiste, è vera, è reale per i viaggiatori del deserto. Le chiacchiere, le discussioni nelle calde notti delle soste; intorno solo un infinito di sabbia e in alto un cielo stellato possono creare una verità.

Infatti, nonostante l'illusione: “... non ha impedito di cercarla, e gran parte delle prime esplorazioni pionieristiche del Sahara fu organizzata per scoprire quel pozzo d'acqua stranamente dimenticato.” (1)

Alla sua ricerca andarono importanti viaggiatori e perfino fu fondato il Club Zerzura fra gli esploratori dediti alla scoperta della città.

Arrivarci non è facile, sia perché si deve camminare chilometri nel deserto, sia perché sono necessari: “… incantesimi e formule magiche necessari per tenere a bada gli spiriti maligni che proteggono quei tesori.” (1)

È una spada l'oggetto magico utilizzato da Ahmoudou per difendersi dagli Djinn. Ahmoudou è il protagonista del film Zerzura del regista ed etnografo Christopher Kirkley.

In Niger, nel deserto, vive una famiglia di nomadi. Nella piccola comunità i ragazzini corrono inseguendo un volatile, perché “esiste un uccello chiamato ladro di bambini.”

La camera entra nei dettagli, nei particolari del deserto, della vegetazione, degli arbusti.

Dentro la bella colorata tenda di Ahmoudou ci sono tre uomini. Parlano della siccità ma non sono alterati, non sono preoccupati, sono rassegnati “devi avere pazienza” perché la devozione a Dio deve essere totale, unicamente Dio decide.

La camera fissa i tre uomini mentre Ahmoudou versa con eleganza, nonostante la povertà, il tè. Escono e camminano nel deserto, ripresi da dietro in campo medio.

“Cosa ti spinge a partire?” è la domanda della madre ad Ahmoudou. La famiglia ha un cruccio, un dispiacere tenuto nascosto, mai ne parlano, però tutti ne soffrono.

Boutali, il fratello di Ahmoudou, ha lasciato la casa da tanto tempo e non ha più mandato notizie. La disperazione della madre si è trasformata in finta indifferenza.

Perciò Ahmoudou parte per ritrovarlo.

È un viaggio a piedi nel deserto, tutto è lento, calmo, silenzioso, tranquillo, la destinazione è Agadez, una città del Niger.

La calma della prima parte è affrontata dell'autore con lo stesso linguaggio: rilassanti campi lunghi fissi, la natura si muove lentamente come spinta da qualcosa di sovrannaturale. Il deserto è inquadrato verso l'infinito, con una prospettiva, con una via di fuga minimale. Il sole è a varie altezze, Ahmoudou cammina e dei cammelli gli passano di fronte tranquilli e adagio

Incontra altri nomadi, non si conoscono ma è accolto amichevolmente, il tono è ancora lo stesso: “novità?” “Tutto come al solito.” Si hanno la siccità, non è la prima volta e non sarà neppure l'ultima.

Arriva ad Agadez, nella ricerca del fratello gli raccontano della sua partenza verso le incredibili ricchezze di Zerzura. Agadez per i nomadi è come una metropoli. Intorno confusione, traffico, disordine, luoghi affollati, e tanta gente nullafacente. Ahmoudou si sente confuso, perso: prospettiva circolare sul caos delle strade, poi primo piano, e di nuovo una prospettiva.

Ahmoudou incontra Doka lo stregone. Gli conferma la partenza di Boutali per Zerzura da tempo. Zerzura è la città che nessuno ha mai visto e nello stesso tempo è “il posto di cui parlano tutti”. Come si raggiunge una città mai vista? È un cammino di sette giorni nel deserto costretto ad affrontare prove impossibili.

È la seconda parte della storia. Dissimile, particolare, ricercata, fantastica. Deve sfidare numerosi djinn durante il tragitto. Scopre immediatamente le future difficoltà perché ha un sogno emozionante, vivo, premonitore, con tanti visi e molti fuochi.

Subito si trova ad affrontare l'avarizia dei cacciatori d'oro. Sono folli, hanno paura di perdere un benessere inesistente. Sono cattivi e hanno la mente ostruita. Il commento di Ahmoudou è tranciante: “Che Dio ci protegga dalla caccia all'oro.”

Successivamente è assalito, ferito e abbandonato senza acqua dai banditi.

Il percorso prosegue, arriva finalmente in alcuni edifici non finiti di una città. All'interno ci sono dei fantasmi, degli djinn. Ha delle allucinazioni. Le costruzioni sono strane, visionarie, come progettate da un Gaudi ubriaco, con scale senza nessuna destinazione.

Affronta l'ultimo diavolo, si trova insieme a tutta la ricchezza del mondo. Lo corrompe offrendogli tutti i beni presenti ma Ahmoundou – simbolicamente – pugnala l'oro e tutto sparisce.

Ritrova il fratello e torna a casa, i bambini stanno ancora rincorrendo l'uccello.

La caratteristica del film è la chitarra dello stesso Ahmoundou, accompagna tutta la storia. È una musica avvolgente, coincide con il tomo favolistico, soprattutto della seconda parte. D'altronde le visioni, le soggettive e prima di tutto un gioco l'effetto flou, in molte scene, coincide con una ricerca umana, sia negli egoismi dei cacciatori d'oro, sia nella calma riflessiva dei nomadi.

Christopher Kirkley tenta il tono etnografico con i tanti particolari della vegetazione, delle oasi. La camera fissa, il montaggio lineare, o il dettaglio dei bellissimi occhi del ragazzo sono strumenti per descrivere la vita dei nomadi, come deve essere. La preghiera di notte, il viaggio a dorso di un cammello sono rilassanti, non forzate. Perfino il mantra continuo dei nomadi “Quest'anno la siccità è davvero brutta” fa apparire l'aridità finta, perché la recitano pacatamente come se fosse una preghiera.

La siccità è come l'evidente povertà, non è importante, è un problema ma non si può modificare la tradizione e la vita d'infinite generazioni di nomadi. La madre gli sconsiglia di andarsene “si sta meglio qui che in città” ed è vero, il regista la mostra come totalmente differente, un posto da cui distaccarsi rapidamente.

Zerzura è diversa come città ma nello stesso tempo ugualmente animata da innumerevoli e pericolosi djinn. La sua esistenza è la metafora di una ricchezza da non ricercarsi alla fine del viaggio ma semplicemente dentro la propria tenda della partenza.

(1) Paul Sussman, L'oasi perduta, Mondadori, Milano, 2009