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Inferno di Dan Brown

Inferno di Dan Brown

Mondadori, Milano

Maggio 2013, prima edizione

Autore recensione: Roberto Matteucci

“Esiste un’unica forma di contagio che si trasmette più rapidamente di un virus” […] “Ed è la paura.” (Pag. 480)

L’aria dell’Italia ringiovanisce la vitalità letteraria di Dan Brown. In Il simbolo perduto si era smarrito nelle strade di Washington, e impantanato in repliche ricorrenti.

Robert Langdon si ritrova, in apparenza senza motivo, intontito in un ospedale di Firenze.

La bellissima città è il luogo di nascita di Dante Alighieri, poeta nato nel 1265.

Per noi italiani conoscere la Divina Commedia è un atto dovuto. Prima per obbligatorietà scolastica, ora per la trasposizione nazional-popolare del tuttofare Roberto Benigni.

Sui significati e i segreti occulti della Commedia si è scritto di tutto. Tutto è interpretabile, e ognuno ha cercato di tirare per la giacchetta il povero esiliato Dante, addirittura supponendo un Alighieri scrittore di versi arabi.

Dan Brown in Inferno (Mondadori, Milano, maggio 2013) unisce le vie nascoste di Firenze e i versi esoterici di Dante, costruendo una trama veloce, inappuntabile. Come nelle altre avventure tutto accade in ventiquattro ore, e sempre con un diverso partner femminile: Sienna.

Una prima caduta di stile è proprio la nuova partner. Sienna è la copia brutta di Lisbeth Salander. Mezzo genio e mezza disadattata, si muove al fianco del professore con atteggiamento dislessico.

Il Professor Langdon è abbastanza vitale, anche se disturbato dalle ferite; senza rinunciare alla solita supponenza artistica.

I due scappano e corrono nelle rinascimentali strade di Firenze, trasformando il libro in un’elegante guida turistica per all’ora sindaco Matteo Renzi: il David, Palazzo Pitti, i giardini di Boboli, ma soprattutto il celato corridoio vasariano.

Nell’usuale caccia al tesoro, aperta da un altro folle miliardario, i pizzini da rintracciare sono frasi della Divina Commedia.

Dopo la città toscana c’è un tuffo nei canali veneziani per poi presenziare, tutti insieme, il gran finale a Istanbul.

La scrittura è la stessa. Capitoli brevi, frasi altrettanto corte. La sequenza alterna una situazione di pericolo a un’altra di spiegazione, tendendo a ricercare di continuo qualcosa più in alto di noi.

Le frasi appaiono retoriche e ampollose, come un momento di sospensione della vita:

“L’aria del cunicolo aveva un odore stantio e di muffa, come se nei secoli la polvere di intonaco fosse diventata così fine e leggera da rifiutarsi di posarsi a terra per rimanere invece sospesa nell’atmosfera.” (Pag. 224)

Mi ha stupito un certo estro autoironico, divertente è la frase in cui sfotte se stesso:

“Non abbiamo a disposizione jet privati per gli autori di tomi sulla storia delle religioni. Se hai intenzione di scrivere Cinquanta sfumature di iconografia, allora ne possiamo parlare.” (Pag. 298)

oppure quando si accomuna con Sienna nel ripetitivo attacco al Vaticano:

“Il Vaticano mi odia.” […] “Anche lei? Pensavo di essere l’unico.” (Pag. 305)

Seguono i tanti amati complotti, scoperti in un finale sbrigativo, perché, dopo circa cinquecento pagine, ancora non si trovava ancora una soluzione di uscita.

Grazie all’unione di molti temi, aneddoti, uomini storici, artisti, città, il complotto assume una dimensione pseudo reale, tanto gradita ai tifosi del cospirazione a oltranza.

Però si è esagerato: “Io sono una fan della verità.” (Pag. 246)