The Mountain Regista: Rick Alverson
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The Mountain
Regista: Rick Alverson
Cast: Tye Sheridan, Jeff Goldblum, Hannah Gross, Denis Lavant, Udo Kier, Annemarie Lawless, Eleonore Hendricks, Margot Klein,, Amy Stiller, Adam Daveline, James A. Besha, Paul Eenhoorn, Larry Fessenden, Daniela Malave, Lollie Jensen
Anno: 2018
Provenienza: USA
Autore recensione: Roberto Matteucci
“Ho il coraggio di viverci nel mondo.”
La lobotomia era utilizzata negli anni quaranta e cinquanta come cura definitiva per i malati mentali con gravissime disfunzioni. È una procedura chirurgica profondamente invasiva: si tagliano le connessioni nervose della corteccia prefrontale nei lobi frontali.
Le controindicazioni sono nefaste; la pazzia nevrotica e fisica sparivano perché diventavano apatici. C'era una distruzione della personalità, delle emozioni e la perdita della memoria.
La lobotomia fu famosa negli Stati Uniti e si diffuse nel mondo; l'ideatore, il portoghese António Egas Moniz, addirittura vinse il premio Nobel per la medicina nel 1949.
Nella metà degli anni cinquanta cominciò a essere abbandonata per poi sparire definitivamente.
Si eclissò velocemente.
La domanda era: sparì perché i neuropsichiatri compresero le sofferenze dei pazienti ovvero perché la Rhône-Poulenc, potente casafarmaceutica, inventò nel 1951 la clorpromazina, un medicinale utilizzato come antipsicotico nella psichiatria?
La pazzia è un argomento stimolante per il cinema perché la follia è la metafora della vita, della società, contro l'annichilimento della individualità anarchica.
È il 1975 quando Jack Nicholson, vivace trascinatore del manicomio in cui è internato, sarà bloccato e annientato con una lobotomia. È Qualcuno volò sul nido del cuculo del regista Miloš Forman.
È il 1971 quando Alex accetta di sottoporsi a trattamenti distopici simili alla lobotomia in Arancia Meccanica di Stanley Kubrick.
In questi esempi non sono i dolorosi risultati della lobotomia a stimolare la creatività degli autori, quanto la supposizione post-psichiatrica della follia come presupposto sociale: la pazzia dipende dall'ambiente, è il frutto della società, la follia non esiste come tale; racconta Franco Basaglia:
“... la follia non è ragione e che la ragione non è follia; io non credo che la follia si possa chiarire e spiegare con la ragione, e viceversa. … schizofrenia vuol dire sistematizzare un determinato modo di esprimersi della follia. … La schizofrenia … è una malattia che colpisce le persone in età adolescenziale e che si esprime per una caratteristica che si chiama “autismo”, cioè il richiudersi in un mondo solitario. … è una difesa di un giovane che non accetta l'impatto con la vita. … in tutti i paesi in via di industrializzazione, in tutti i paesi più avanzati, la forma clinica più frequente era proprio la schizofrenia … In altre parole, la malattia mentale è la maniera di esprimersi della follia nei vari contesti sociali nei quali sorge. A me non interessa tanto la follia, e neanche la malattia mentale, ma il modo in cui il folle riesce a vivere la sua vita, tenendo presente il modo in cui si svolge culturalmente la vita della società.” (1)
Franco Basaglia ha le idee chiare sull'influenza di una moralmente corrotta società nelle malattie contemporanee come la schizofrenia, anch'essa curate dalla lobotomia; perciò come si può guarire una malattia sociale con la chirurgia?
Jack Nicholson avrebbe potuto svolgere “culturalmente la vita della società” anziché essere lobotomizzato?
L'evidente empatia per Nicholson sarebbe stata la stessa se la ricostruzione della pratica chirurgica si fosse svolta in un ambiente freddo, chiuso e piatto?
Ci aiuta il regista Rick Alversonnel film The Mountain, presentato alla 75° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, a raccontarci la lobotomia con un linguaggio e una struttura diversa.
Il dottore Walter Freeman gira migliaia di nosocomi negli Stati Uniti per praticare la lobotomia. Il regista racconta:
“Il personaggio è liberamente basato sul personaggio storico del dottor Walter Freeman che ha inventato la lobotomia basata su una procedura portoghese chiamata leucotomia. Freeman eseguì tra 3000 e 5000 lobotomie senza una licenza per eseguire un intervento chirurgico. La cura era toccare il lobo frontale del cervello, riducendo la capacità di emozioni e agitazione delle persone. È stato fatto per omosessuali, per le donne in menopausa, è stato fatto per calmare segmenti di popolazione. Ciò era parzialmente dovuto all’ignoranza e alla parziale arroganza dei medici. Sono stati soprattutto i maschi bianchi a imporre questa sorta di soggiogamento e pacificazione della popolazione”. (2)
La storia narra di un dottore giramondo, il quale entrava negli ospedali per operare i malati più malinconici, più insofferenti, quelli scartati da tutti.
Il contesto sociale è costruito intorno al Dr. Wallace Fiennes, alias di Water Freeman. La sua è una esistenza vissuta al limite, piena di dolore, di sconforto, di solitudine, di frustrazioni. Il dottore è accompagnare nel suo tour da Andy un giovane alienato, privo di contatti umani e di amore. Il medico aveva lobotomizzato anche la madre di Andy. Alla morte del padre, Andy è solo, perciò Water Freeman lo invita a seguirlo.
Il film inizia in una camera, un ragazzo perso nei suoi pensieri, quasi catatonico. È Andy. Arriva il genitore, gli sguardi si incrociano ma non si parlano. In questo preambolo c’è la dimensione umana triste e depressa della famiglia, amplificata dalle claustrofobiche inquadrature fra gli infissi, i quali limitano la scena, come a rimpicciolire l'esistenza.
Intorno a essi c’è tanta gente normale, una coppia scopa nello spogliatoio e Andy, inconsapevolmente, lì guarda stupito, incapace di reagire.
La sera il padre, ubriaco sul divano, guarda una televisione degli anni cinquanta in bianco e nero mentre il figlio si deprime in camera da letto.
È tutto senza speranza, deprimente, senza nessun collegamento con l'esterno.
Il rapporto fra essi è enfatizzato quando Andy approccia una conversazione:
“Posso raccontarti il mio sogno?”
“Hai già cominciato.”
Tutta la alienazione del mondo è sintetizzata in quella famiglia.
È una esagerazione del regista?
Il padre muore ma lo scopriamo diverso quando le sue allieve ballano sulla pista di pattinaggio per onorare la sua scomparsa.
La pellicola si trasforma in un on the road.
Ma non cambia il tema stilistico: Andy guida la macchina in una strada sempre solitaria, circondata dal nulla, guidando piano, senza mai uno scatto, un gesto brusco o di agitazione.
Sostituisce la figura del padre con quella del dottore.
Tenta un dialogo, un affetto, lo vede come un modello di comportamento ma ha un tarlo nella mente: “L'hai fatto anche a mia madre?”
Water Freeman si comporta con cinismo e menefreghismo. La sua esistenza non è migliore di quella di Andy.
La sua impassibilità nasconde un profondo esibizionismo: si fotografa con i pazienti dopo gli interventi, come in un selfie. Il dottore non ha nessuno, si consola in quelle dolorose e cupe fotografie, non assomiglia anch'esso alle sue vittime?
Arriva perfino il momento in cui Andy lo supera trovando l’amore. È l’amore di una ragazza rinchiusa in sanatorio dal padre. Water Freeman è stato chiamato dal genitore per praticargli la lobotomia. Ma Andy e la ragazza si conoscono e si amano.
Il ragazzo finalmente scopa con la donna, trova il senso dell’amore, e forse la vicinanza della madre. Il dottore soffre d'invidia, fatale per i ragazzi quando scopre il loro gesto sessuale.
“Senti delle voci?” in uno stanzino bianco asettico triste, Andy parla con il dottore. Poco prima Andy ha dato in escandescenza, vuole stare insieme la ragazza e per rimanerci ha una unica soluzione essere lobotomizzato.
Rick Alverson mantiene lo stesso stile linguistico. Non è un compito facile avere continuamente immagini depresse, indolenti, letargiche. Muove la camera lentamente, e i personaggi si spostano inespressivi. Preferisce riprenderli alienati alle spalle, scegliendo inquadrature fisse, sempre ridimensionati da porte, oppure inquadrando il peggio degli ospedali psichiatrici nella loro profondità di surreali corridoi, percorsi con cupezza.
Il minimalismo delle scene sfrutta una esasperante monocromia bianca, con altri colori passivi, sfumati tutti sul bianco, ma perfettamente nitidi.
Il messaggio è chiaro e dettagliato, il regista ne è consapevole e usa tutti gli strumenti intellettuali a disposizione.
Questo scoramento causa un effetto contagioso, tutti sono influenzati da una elevata infelicità metafisica, la logica sparisce e restiamo concentrati fino a rimanere deboli per l'esaltazione della depressione. Perciò la trama, come i personaggi si spengono, si immobilizzano. Water Freeman è sopra le righe, troppo carico di colpe. Andy si dimostra introspettivo ma non riesce a determinare la storia eccetto quando vive il profondo ma impossibile amore. Il suo desiderio di raggiungerlo è come un Shinjū, un reciproco suicidio d'amore.
Ci sono tante scelte freudiane ma non specificate esattamente, come non c'è la condanna all'uso indiscriminato della lobotomia. Manca la storicizzazione del fenomeno. Le alternative del tempo non erano migliori, i manicomi erano delle orrende prigioni e l'uso dei primi psicofarmaci avevano gli stessi effetti della lobotomia.
Non ci sono esaltazioni di colori e così i personaggi appaiono giustamente freddi. Tutte le immagini mantengono una frigidità visiva, come la musica, in realtà un sibilo, un tono ripetitivo.
(1) Franco Basaglia, Conferenze brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano, Prima edizione 2000
(2) http://xl.repubblica.it/articoli/the-mountain-viaggio-tra-follia-ed-estrema-lucidita/81310/