The Wasteland - Dashte khamoush Regista: Ahmad Bahrami
The Wasteland - Dashte khamoush – La tierra baldía
Regista: Ahmad Bahrami
Cast: Touraj Alvand, Ali Bagheri, Majid Farhang, Mahdie Nassaj, Farrokh Nemati
Provenienza: Iran
Anno 2020
Autore recensione: Roberto Matteucci
Click Here for English Version
“Una donna deve avere la metà degli anni del marito.”
La produzione dei mattoni è un'attività antichissima, particolarmente dura. Si raccoglie l'argilla, si plasma nella sagoma, si essicca e la si cuoce. Il lavoro di recuperare il materiale è pesantissimo, bisogna plasmarlo con le mani, bisogna lasciarlo ore in un forno. Alla loro realizzazione erano destinati gli schiavi. Un fenomeno perfino ricordato nella Bibbia. Gli ebrei, schiavi degli egiziani, erano incaricati all'attività più degradante, la fabbricazione dei mattoni, Giuditta 5,11:
“Ma si alzò contro di loro il re dell'Egitto che li sfruttò nella preparazione dei mattoni e perciò furono umiliati e trattati come schiavi.”
Oggigiorno, le condizioni degli operai sono migliorate ma la creazione di laterizi rappresenta sempre un lavoro logorante rivolto alle classi più emarginate. Reportage giornalistici tuttora parlano di schiavitù per i lavoratori delle fabbriche di mattone, sia per l'ambiente insalubre per l'inquinamento, sia per il calore, sia per aria appestata, sia per la fatica tremenda.
In Cambogia, i lavoratori delle industrie di mattone sono utilizzati, sia i genitori, sia i figli, per pagare i debiti:
“... holistic approach is needed to break the cycle of debt bondage, in which parents take up loans from factory owners to pay back previous debt and then pass on their debt through generations.” (1)
In Bangladesh, sono impiegati migranti e bambini:
“Migrant labourers, mainly from areas in northern Bangladesh such as Khulan, Bagerhat, Shatkhira, and Jessore work in kilns around cities while local labourers are employed in rural areas.
There is a prevalence of child labour. … children were found to have started working in brick kilns between the ages of 8 and 10 years.” (2)
In India, i lavoratori dei laterizi sono trattenuti con la forza fino al pagamento degli strozzini:
“The work is hard standing in the water, lifting the bricks. We make 1,500 bricks a day. Only after six months will we get released. They work 12 to 18 hours a day, pregnant women, children, adolescent girls... " (3)
In Nepal, ci lavorano gli emarginati che hanno contratto debiti senza poterlo ripagare:
“Brick workers in Nepal are the most marginalized of the unskilled workers, often bonded by debt and forced to work for insufficient wages. The brick industries employ migrant and seasonal laborers who have no link to local government or representation by workers’ associations and are situated mostly in suburban areas. ... The laborers of the kiln are mostly from the agricultural sector ... Four main activites take place in the brick factory. These are: preparing mud and laying brick, barrying raw bricks to kiln, working inside the chimney and carrying out cooked brick. Work inside the chimney includes spreading rubbish over the brick, firing the furnace, controlling the fire and flame and clearing the hole. Human laborers carry the baked brick.” (4)
In Pakistan, i lavoratori sono i più poveri, pieni di debiti e provengono specialmente dalle minoranze Hindu e cristiane. Spesso il loro destino è la morte:
“È una doppia, terribile, discriminazione. Che colpisce le minoranze religiose – cristiana e indù – e le fasce più povere della popolazione pachistana. Arrivando a coinvolgere un “esercito” di 2,3 milioni di persone. Sono gli “schiavi per debito”. … Si inizia con un prestito o un anticipo da parte dei datori di lavoro. Restituirlo richiede in media due anni, durante i quali si è ridotti in una condizione servile. Senza diritti, senza certezze, senza paga, costretti a turni di lavoro massacranti, in abitazioni spesso fatiscenti. In molti casi, il lavoratore non ce la fa, non riesce a ripagare il debito contratto. Inizia, così, un calvario che spesso si conclude soltanto con la morte.” (5)
Condividono la sorte degli uomini pure gli animali impiegati nelle fornaci. La loro condizione è anch'essa orrenda e pericolosa:
“In traditional kilns, bricks are made by hand and then transported by donkeys, mules and horses. They carry many tonnes of bricks daily in packs or carts within the kilns, and to external locations, for use in the construction industry. These animals suffer from poor nutrition and other serious health and welfare issues caused by their working environment, as well as by poor husbandry and management. Extreme temperatures; lack of shade, water and rest; difficult terrain and overloading cause disease and injuries. Services, including healthcare, are scarce and labour abuses are commonplace, including low wages, child labour and bonded labour. Brick kilns are also extremely polluting to air and water, which in turns causes infection and respiratory diseases in humans and animals.” (6)
In Iran, il contesto è simile. Gli operai delle fabbriche di mattoni sono gli immigrati delle aree più povere del paese:
“Workers that work with their families with simple jobs in these factories are mainly from the country’s poor provinces such as Khorasan, Kurdistan and … that move to Tehran to work as seasonal brick factory workers ...” (7)
Sono pagati vergognosamente, è la categoria con salari più bassi:
“30,000 brick factory workers are among the country’s most deprived workers.” (7)
Sono sequestrati, con la famiglia, insieme ai minori, dentro le fornaci e costretti a lavorare penosamente:
“Due to the increase in production and increased revenue, the workers’ families all work together to bring in more income and therefore, the children of these families work in these brick factories at very young ages along with mothers and fathers ...” (7)
I giornali riportano ancora il termine “schiavo” per raffigurare la situazione miserevole, terribile, pietosa dei dipendenti delle fornaci.
La vita di alcune famiglie di operai all'interno in una fornace nel deserto dell'Iran, è narrata dal regista iraniano Ahmad Bahrami. Essi sono simbolo dei lavoratori sfruttati nel mondo. La pellicola The Wasteland - Dashte khamoush ha vinto il Premio Orizzonti per il miglior film alla 77° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Nel deserto dell'Iran, approssimativamente una zona interna verso i confini con Turkmenistan e Afghanistan, c'è una fabbrica di mattoni. La produzione è ancora a mano. Recuperano l'argilla, formano il mattone e poi li cuociono nei forni. Sono impiegati alcune famiglie, uomini donne anziani bambini. Sono di etnia disparate, sono nella peggiore povertà, lavorano moltissime ore al giorno senza riposo. Gestire le differenti famiglie non è facile. A tenere uniti i gruppi, risolvendo le discordie c'è Lotfollah, un tuttofare, custode, mediatore. Il suo principale compito è di mediare i contatti fra gli operai e il padrone, presso il quale tenta di spiegare e caldeggiare le numerose necessità.
Il film ha una struttura ripetitiva, a cerchio, lo sottolinea il regista:
“Abbiamo I racconti di Le mille e una notte, in cui la storia si ripete, c'è un cerchio che ripete questa storia, la figura del cerchio piace perché le persone si ripetono e poi man mano una alla volta escono dalla storia.” (8)
Nel film una scena si ripete per cinque volte, lo stesso numero dei gruppi familiari. Diverse sono unicamente le richieste e le frasi.
Gli operai chiedono prestiti, anticipi al proprietario, il quale risponde con un gentile diniego. I lavoratori sono soggiogati.
Lo stabilimento ha un inesorabile destino: chiudere. Il padrone vende il terreno e ordina a tutti di andarsene, promettendogli di pagarli successivamente, ma indubbiamente è un'altra menzogna. Per Lotfollah, nato nella fabbrica, quella fornace incarna il suo mondo. Al di fuori, non ha vita, futuro, speranza. In realtà, Lotfollah aveva un sogno, una affascinante donna, Sarvar (Mahdieh Nassaj). Anch'essa lavora nella fabbrica ed è l'amante del capo. L'illusione svanisce e gli rimane un'unica soluzione: adoperare i mattoni per costruire la sua tomba.
Con uno stile formale, gli argomenti narrati sono inconfondibili.
Il primo tema è l'Iran, il Medio Oriente, e le molte etnie da cui sono composti. Poi c'è la storia meramente emblematica di lavoratori senza protezioni, in schifose condizioni, con infime retribuzioni. L'indigenza economica, sociale, umana provoca un sacrificio. Il sacrificio inutile di persone condannate all'eterna miseria, destinata a ricadere sui figli. In mezzo c'è il mediatore a cui rivolgersi costantemente per trovare delle soluzioni, dei compromessi.
La storia dell'Iran è quella di una nazione esemplare, una storia più culturale che militare:
“… si sviluppasse un forte sentimento di identità e di fedeltà fondato sulla fede sciita, sulla cultura e sulla lingua persiana, e sulla terra antica e ricca di storia dell'Iran.” (9)
La rivoluzione del 1979 era stata voluta dalla popolazione, desiderosa di un rinnovamento radicale. In seguito molto del fascino sparì, sia a causa della sanguinosa guerra con l'Iraq, sia per lo scarso sviluppo economico.
Il regista Ahmad Bahrami è consapevole sia delle virtù culturali del suo paese, sia dei difetti, quindi usa l'Iran come allegoria. In Iran non si può parlare direttamente, è conseguente ricorrere a metafore e simbolismi, pertanto la fabbrica di mattoni è l'Iran:
“It’s difficult to be straight forward in Iran, so we chose metaphor as a visual cue. Especially because we wanted to use a metaphor for day-to-day life, we chose this particular location and the repetitive brick-making business.” (10)
L'Iran è parte integrante di un Medio Oriente bellissimo, antico, culturalmente avanzato, e ricco. Il petrolio ha dato ricchezza esagerata ad alcuni stati. Dall'esterno potrebbe apparire che gli abitanti abbiano case lussuose con gli accessori del bagno d'oro. La realtà è diversa. L'allegoria è il petrolio e la sua incapace gestione, il cui effetto è la creazione di una disparità immensa. Perciò, i ricchi giacimenti di greggio dell'Iran non aiutano la popolazione, larghe fasce sono ridotti a vivere in circostanze simile a quella descritta nella Bibbia. È l'idea del regista:
“If I had to pinpoint it, I would say that this is a story of the Middle East where everyone is working for the “black gold”, which is oil. The factory can be taken to be a representation of the oil industry especially as it relies solely on oil and gas. And this leads to the idea that the Middle East may be super-wealthy because of oil but none of its (ordinary) people are able to use this wealth.” (11)
C'è la miseria, la lotta di classe. La loro esistenza è disgustosa, sia per i salari bassissimi, sia per la cattiva sicurezza. L'autore ha una concezione marxista, i proletari di tutto il mondo dovrebbero unirsi, la vita nella fornace è il simbolo di una condizione internazionale. Fondamentali cambiamenti sono avvenuti dal 1848, data di pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista, ma permangono sacche, spesso enormi, di sfruttamento spietato. Nuovi schiavi, come i recenti lavori della gig-economy, e vecchi schiavi, come gli operai dei mattoni sono tuttora sfruttati al limite della sopravvivenza:
“Ma, per opprimere una classe, bisogna pure assicurarle delle condizioni entro alle quali le sia dato di vivere almeno la misera vita degli schiavi.” (12)
Ahmad Bahrami conferma il profondo respiro universale della sua ipotesi:
“La storia del film riguarda lavoratori iraniani, anche se quanto si svolge nel film potrebbe succedere ad ogni lavoratore, ovunque, in ogni parte del mondo. Le difficoltà dei lavoratori e le sfide con i rispettivi capi non sono limitati all’Iran, per cui la storia di questo film può essere considerata la realtà della vita di tutti i lavoratori del mondo.” (13)
Tutti i personaggi hanno la medesima caratteristica, partecipano alla costruzione sociale pur essendo invisibili, fuori dal tempo e dalla storia.
Lotfollah è prigioniero nella fabbrica. È la personificazione di un ossimoro perché la sua è una prigionia libera, poiché non ha alternative, non saprebbe dove andare. Ha quaranta anni ma dichiara di averne di più per avere la pensione. Nel suo squallore ha un amore segreto, Sarvar. Anch'essa vive e lavora, con il figlio, nella fornace. Lotfollah è il mediatore fra gli operai e la proprietà. Tutti si fidano di lui. La figura del mediatore per il regista è importante, storica, tradizionalmente valida per il Medio Oriente, come presenza codificata:
“Figura di questo custode, noi in Medio Oriente, non abbiamo il coraggio di parlare direttamente parlare con chi comanda abbiamo sempre bisogno di un tramite … porta la parola al capo, proprio per raccontare tutta la storia.” (14)
Tutti lo considerano fedele, con un ardente senso del dovere. È accettato per la sua mansuetudine e timidezza. È forte, non fisicamente, ma come catalizzatore dei problemi dell'industria.
Malinconico, modesto, umile, saturnino è un protagonista perfetto per la fabbrica e la sua ambientazione minimalista. Si presuppone che abbia a cuore le sorti di chiunque, del capo, dei colleghi e soprattutto di Sarvar e nel finale compirà un gesto religioso, un gesto di ribellione per gli sconfitti della storia: sarà il martire di tutti.
Anche l'esistenza del padrone non appare migliore:
“Né i lavoratori né il capo si trovano in una buona situazione e la vita non è facile per nessuno di loro. Per lo più, sembrano intrappolati in una condizione sociale e storica. Non c’è un vero responsabile per tutti i conflitti; tanto il capo quanto i lavoratori stessi hanno interessi in gioco.” (15)
La differenza è congenita, il proprietario è un bugiardo incallito. Mente a Lotfollah e indirettamente agli operai: “Quando mai il capo ha avuto i soldi.”
È generose a parole, promette denaro, millanta amicizie, aiuti inesistenti. Ma anch'esso è un prigioniero nella fabbrica; si comporta da infame, pieno di falsità. È il contraltare di Lotfollah: altero, ingrato, corrotto moralmente. È lascivo nella relazione con Sarvar, poiché è sposato e non si cura di essa. È egoista perché non esita di vendere la fabbrica fregandosene degli operai e delle loro famiglie. Devono sloggiare entro l'alba, compreso Lotfollah, e continua a ingannarli quando afferma di spedirgli rapidamente gli arretrati.
Gli altri personaggi sono gli operai e i loro familiari. Ritraggono dissimili umanità ed etnie: i curdi comunisti ovvero le storie da amore ostacolate dal padre. Sono divisi, litigano, sono dentro le loro stanze ma compiono tutti gli stessi movimenti, gli stessi riti come il tè versato nel piattino con lo zucchero in bocca.
La mattina tutti partono scoraggiati, alla ricerca di un luogo più generoso, ma sicuramente troveranno un altro disperato lavoro, la loro vita è rinchiusa in un fagotto. La loro vita è un cerchio, si ripeterà.
L'inizio del film è un rumore di un carro, trasporta ghiaccio nel caldo deserto. La camera è fissa, si alza, c'è Lotfollah. Sta guidando il carretto con un cavallo. Campo lunghissimo, c'è una fabbrica di mattoni.
Il regista prosegue con identico stile. Le ripetizioni delle scene hanno degli elementi in comune, i soggetti sono diversi, il capo declama il medesimo discorso. Gli operai, concentrati a pensare ai loro problemi, sono inquadrati da punti di vista differenti.
Le sequenze si ripetono come un cerchio. Al contrario, la camera carrella perennemente lateralmente pure se c'è un ostacolo. La barriera è spesso un muro di mattoni. Il carrello riprende i personaggi disinteressandosi della vita di fronte. Il regista vuole mantenere distacco e freddezza nei confronti degli eventi. La camera non si esalta, mantiene un tono calmo, imperturbabile, non vuole partecipare alle loro esistenze. Va nel suo binario nonostante gli sbarramenti sia fisici, sia umani e nonostante le emozioni contrastanti nati in quel microcosmo iraniano:
“… diamo uno sguardo anche alla location della nostra storia. È un posto che produce mattoni: hanno tutti la stessa forma e sono dello stesso materiale. O agli stessi dialoghi, che ruotano attorno a un perno e si ripetono cercando di ribadire la medesima domanda principale. Questa ripetitività si trasmette persino alla coreografia della macchina da presa, in cui la macchina parte da un punto stabilito e termina ritornando allo stesso punto. Penso che la forma e struttura ripetitive possano meglio rappresentare l’alienazione e rendere il senso della noia di quei lavoratori nella vita quotidiana.” (16)
L'uso del piano sequenza ha un significato. È la continuazione di un presunto stile neutro, imparziale. Il piano sequenza filma il tempo normale, scandisce i secondi e i minuti della vita, di conseguenza è più vicino al sentimento di realismo:
“Ricavare una sequenza con un’unica ripresa comporta alcuni aspetti importanti: prima di tutto, ottieni maggior senso di realismo; poi, la recitazione è più credibile perché non c’è taglio dell’azione; infine, il tempo degli eventi della vita reale coincide col tempo degli eventi filmici. In definitiva, il piano sequenza si avvicina di più alla vita di quanto si faccia di regola a livello cinematografico, e il film proiettato sullo schermo appare assai più simile alla vita vera.” (17)
C'è un'incognita, il bianco e nero, utilizzato dal regista. La vita non è in bianco e nero. Per l'autore ha uguale significato della camera fissa, del carrello, delle trame dei mattoni. Il bianco e nero non appartiene alla realtà, la vita è colorata. Ma il colore potrebbe impregnare la storia di troppa allegria, e la vita nella fabbrica non ha nulla di allegro, il colore deve essere bandito:
“... ho deciso di fare un film in bianco e nero, perché ritengo che nelle loro vite non ci sia colore. E cionondimeno, a livello formale e strutturale creare armonia tra due colori è molto meglio che crearla tra tanti colori, e più piacevole.” (18)
The Wasteland ha un'atmosfera poetica ma anche politica, essendo questo il fine prevalente del regista. Il film, benché abbia la presunzione di essere realista, non narra una storia reale, vuole raccontarci una parodia della vita dei lavoratori di mattoni. Bene e male si nascondono nel bianco e nel nero. Alla fine sarà solo Lotfollah ad avere una vera funzione etica, sarà un martire, un martire vero.
(1) https://www.voanews.com/east-asia-pacific/100s-children-cambodia-work-brick-factories-report-finds
(3) https://www.bbc.com/news/world-asia-india-25556965
(4) https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6748303/
(5) https://www.avvenire.it/mondo/pagine/pakistan-nuovi-schiavi-nelle-fornaci-di-mattoni
(6) https://www.thebrooke.org/our-work/exploitative-industries/brick-kilns-a-hidden-industry
(7) https://irannewsupdate.com/news/economy/tehran-15-hours-of-work-for-brick-factory-laborers/iran
(8) https://www.youtube.com/watch?v=wGVPIxdjST4
(9) Bernard Lewis, La costruzione del Medio Oriente, Laterza, Bari, Seconda edizione Economica Laterza, 2011.
(10) https://www.goldenglobes.com/articles/wasteland-iran-interview-ahmad-bahrami
(11) https://www.goldenglobes.com/articles/wasteland-iran-interview-ahmad-bahrami
(12) Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del Partito Comunista, Mursia, Milano, pag. 45