Il coperchio del mare di Banana Yoshimoto

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Il coperchio del mare di Banana Yoshimoto

Feltrinelli, Milano

Giugno 2009, prima edizione

Autore recensione: Roberto Matteucci

“Alla fine dell’estate chi è stato l’ultimo a uscire dal mare?

L’ultimo è tornato a casa senza chiudere il coperchio del mare.” (Pag. 9)

Banana Yoshimoto racconta storie semplici, brevi, con trame moderate, senza velocità. Essa esalta la genuinità, con avvenimenti quasi banali, elementari. Ci mostra un frammento di esistenza; un nulla che nessuno avrebbe il coraggio di raccontare, e soprattutto nessuno avrebbe l’ardire di scriverlo.

Eppure la semplicità, la sobrietà sono merci preziose, un dono divino posseduto da pochi, come nel Il coperchio del mare (Feltrinelli, Milano, giugno 2009, prima edizione).

La scrittrice nipponica è potente e ci esibisce un piccolo dettaglio di vita, un normale sentimento di amicizia, il tutto accompagnato con un altrettanto impercettibile mondo di cultura giapponese. Con i suoi scritti ci adagiamo al lento rollio delle sue parole, ci addentriamo in un sogno lontano: siamo anche noi su uno scoglio a osservare il mare giapponese.

Superati i tanti sogni adolescenziali, la giovane Mari effettua una scelta coraggiosa e problematica. Abbandona tutte le ambizioni esuberanti optando per la via più difficile: decide di fondare un piccolo chiosco di produzione e vendita di granite nella periferia della sua città di nascita.

Il suo paese, durante la sua infanzia, aveva avuto uno sviluppo economico consistente, sia commerciale sia turistico. Ora, dopo appena qualche anno, era entrato in evidente e inarrestabile decadenza.

Però Mari accetta la sfida, indossa il meglio della tradizione per cercare di essere con la sua devozione un esempio ai suoi concittadini.

Ma i romanzi della Yoshimoto non sono testimonianze solitarie, trova sempre un alter ego femminile alla protagonista.

Come Chie-chan e Kaori in Chie-chan e io come Kimiko e la sorella in Delfini, ad agitare la solitaria, chiusa, con pochi amici, riflessiva, nostalgica Mari arriva Hajime.

Hajime ha un segno distintivo sul volto: da bambina durante l’incendio della casa le fiamme gli hanno deformato il suo aspetto.

Non è bruttezza, è un valore di vita; all’inizio colpisce, spaventa, poi nel tempo è apprezzato.

Il suo carattere appare permissivo, sottomesso, in realtà lei possiede una forza derivante dall’amore della persona che la ha protetta dal fuoco.

La Yoshimoto la paragona a una divinità ancestrale:

“… tutte le divinità che hanno fissato la loro dimora vicino ai luoghi abitati dagli esseri umani sembra che abbiamo sembianze pensate per incutere terrore.

Sguardo folgorante, zanne, corpi colorati di rosso, armi in mano.

Non c’è dubbio che siano così in parte per proteggere se stessi. Io, però, più che per questo, penso che il loro aspetto serva per mettere alla prova i nostri cuori. Perché solo chi è in grado di vedere al di là delle apparenze può venire toccato dalla potenza delle loro anime delicate.” (Pag. 11)

I segni sul viso sono un’arma per difendersi dalla paura, dall’orrore della quotidianità.

Le due donne finiscono a compensarsi, a completarsi, a diventare indispensabili una all’altra. Come tutte le figure femminili di Banana Yoshimoto esse non hanno un’unica identità, ma sono parziali, da assemblare, da finire. Mari aveva deciso di sfidare la vita ritornando alla tradizione, ma non aveva raggiunto il concetto dell’amicizia rimanendo limitata.

La stessa Hajime aveva un vuoto da completare. La nonna la aveva protetta salvandola dalla morte. La nonna le aveva dato l’amore e la conoscenza della vita : “Mi chiedevo se per lei il mare, il cielo della sera e la spiaggia non fossero, in una maniera alquanto naturale, delle tracce di sua nonna.” (Pag. 64)

La loro amicizia appartiene alle donne. Gli uomini sono esterni, appaiono come folgori gentili. Banana Yoshimoto non è una femminista ossessionata dai maschi, lei riesce a descriverli con cortesia, ma ai margini della storia, un po’ frastornati, fuori del loro mondo : “Di sicuro gli uomini riescono a fare anche cose estreme, perché hanno un posto dove tornare. Che sia dalla moglie o dalla madre, non importa.” (Pag. 71)

Questa sottile e profonda amicizia saprà cavalcare il tono nostalgico e tradizionale/moderno della scrittrice. Nei suoi romanzi i personaggi si solidificano nella esistenza giapponese.

“L’area, comunque, aveva preso quell’adorabile patina di tristezza che avvolge le cose prima della loro fine.” (Pag. 51) Il linguaggio è simmetrico alla direzione sociale della sua città e le tonalità linguistiche della nostalgia, malinconia sono parallele alla sua terra.

È nella sua patria, dove torna nonostante il senso di morte, compreso e accettato come facente parte del mondo.

Tutto è scritto in prima persona, e tutto accade durante un’estate, o meglio il tutto non accade durante un’estate. Nulla sembra succedere, tutto gira intorno alle granite di Mari e alla amicizia con Hajime. Banana Yoshimoto lo conferma:

“La mia vita sarebbe stata monotona, opprimente, noiosa e avrei avuto l’impressione di ripetere le stesse cose all’infinito. Eppure ero convinta che avrei trovato qualcosa di diverso in quella monotonia, qualcosa di speciale.” (Pag. 105)

E quel qualcosa di speciale è Hajime.

Roberto Matteucci

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“There’d he even less chance in a next life,” she smiled.
“In the old days, people woke up at dawn to cook food to give to monks. That’s why they had good meals to eat. But people these days just buy ready-to-eat food in plastic bags for the monks. As the result, we may have to eat meals from plastic bags for the next several lives.”

Letter from a Blind Old Man, Prabhassorn Sevikul (Nilubol Publishing House, 2009)

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