Il Buono il Matto il Cattivo - Joheunnom nabbeunnom isanghannom Regista: Jee-woon Kim
Il Buono il Matto il Cattivo - Joheunnom nabbeunnom isanghannom
Regista: Jee-woon Kim
Cast: Kang-ho Song, Byung-hun Lee, Woo-sung Jung
Anno: 2008
Provenienza: Corea del Sud
Autore Recensione: Roberto Matteucci
“I banditi non hanno bisogno del biglietto.”
La Manciuria è una vasta terra. Separa Corea, Cina, Russia, Mongolia e si può dire anche il Giappone, per la vicinanza delle sue isole settentrionali. La zona è da sempre scenario di conquiste e invasioni; una lotta serrata fra i cinesi e i russi. Dall’inizio del novecento l’interesse del Giappone fu pressante, fino a manifestarsi con un’avanzata militare per la conquista di tutta la Manciuria e la fondazione di uno stato autonomo, siamo intorno al 1930. Già dal 1910 i giapponesi avevano occupato la Corea e non fu una dominazione semplice: molto sofferta e violenta. Per i coreani fu uno smacco mai sanato in tanti anni e ancor oggi ben ricordato nei rapporti fra le due nazioni.
Negli anni trenta, su questo sfondo è ambientato il film coreano Il Buono il Matto il Cattivo - Joheunnom nabbeunnom isanghannom di Jee-woon Kim. La storia è una bizzarra accozzaglia di generi, esagerati e frastornati.
I personaggi sono i tre eccentrici aggettivi del titolo, tutti coreani.
La storia prevede una folle gara all’inseguimento di una mappa.
È il solito destino dell’uomo, quello di correre dietro ad un mito, a una speranza, a un santo graal.
Il Cattivo – Manciuria Kid – uccide crudelmente il salvatore dal suo passato alcolista.
Il Matto si trova casualmente fra le mani la mappa; la sua esistenza è piena di coincidenze e di casualità fortuite: è salvato miracolosamente per armi bloccate all’ultimo istante, o da uno scafandro indossato all’improvviso per proteggersi dalle pallottole.
Il Buono appare nella sua versione celestiale, come quando racconta l’utilizzo del fantomatico tesoro: un primo piano dolce e mistico.
Tutti e tre appaiono, s’incontrano e si conoscono nella bellissima scena iniziale del treno.
Su quel treno c’è un alto funzionario della banca giapponese con la ricercata mappa.
I tre corrono sul treno. Affrontandosi uno con l’altro.
Il luogo chiuso, la corsa sul treno sono i topoi del saettante inizio.
Memorabile è la scena di ambientazione. Il bandito cammina sul treno ripreso alle spalle, e passa dalla terza classe alla prima: settori riconoscibili dall’arredamento, dagli eccentrici bagagli e dall’abbigliamento dei passeggeri.
I tre personaggi affrontano sulla loro strada tanti altri fenomeni.
Ma i veri cattivi sono i giapponesi. Gli oppressori della Corea, i conquistatori della Manciuria.
Sono loro da cacciare, da punire. Un sogno lungo perché bisognerà aspettare la fine della seconda guerra mondiale.
Le riprese sono delle linee rette su cui corrono tutti i simboli del film.
Il binario del treno sfreccia verso un punto di fuga dell’infinto, le linee del deserto e dossi sono perfetti.
I fondali sono palesamente finti e la luce solare, chiara, pulita.
La finzione è incontrastata, non lascia spazio a dubbi.
Metafora è il mercato della città diventato un crogiuolo di cinesi, coreani, russi e giapponesi.
All’improvviso si anima di elefanti, venditori di acqua miracolosa, fino al passaggio di un dromedario: un circo umano.
Qui arriva il vero richiamo alla nota pellicola di Sergio Leone. Come nel west del regista italiano, anche quello del coreano Jee-woon Kim è il regno della fantasia e della immaginazione.
È un luogo sognato, vagheggiato. La bellezza della pellicola è nel costruire una realtà truccata e surreale.
Qualcosa di diverso nella versione coreana rispetto all’originale è la sottile vena di ironia:
“La taglia sulla tua testa è di 300 won”,
“Che cosa? Io valgo come un piano”
“Si ma come uno usato.”
L’aspetto morale dei tre eroi è limitato. In realtà i tre sono dei moralisti, alla ricerca di una propria etica, di qualcosa di elevato, in considerazione della battaglia finale contro i giapponesi, forse la liberazione della Corea.
Tutta la regia è spumeggiante e vibrante. Le sparatorie sono violente come in un film di John Woo, per arrivare improvvisamente ad una pace surreale: allora dopo raffiche forsenniate fra due lati di una strada desolata c’è un momento di pausa con un parasole colorato fermo, immobile a decretare la falsità di tutto e la conseguente bellezza del film.