Invictus - L'invincibile Regista: Clint Eastwood Cast: Morgan Freeman, Matt Damon
Invictus - L'invincibile
Regista: Clint Eastwood
Cast: Morgan Freeman, Matt Damon, Marguerite Wheatley
Anno: 2009
Provenienza: USA
Autore Recensione: Roberto Matteucci
“La riconciliazione inizia qui. La Nazione Arcobaleno inizia qui.”
Nelson Mandela nel 1994 diventa Presidente del Sud Africa.
Fu la fine del regime che governò il paese per tanti anni. Il cambiamento non fu facile e Nelson Mandela ne era consapevole. Era cosciente di dover compiere un’azione forte, decisa e soprattutto antipopolare per unire i presunti sconfitti ai vincitori: “Mi avete eletto come Vostro leader, ora fatevi guidare.”
Per essere leader ci vuole il coraggio di scelte contro corrente, contro il pensiero prevalente. Decidere è un atto politico, perfino e soprattutto sui fatti simbolici: far diventare la squadra nazionale di rugby, amata solo dai bianchi e odiata dai neri, la squadra di tutta una nazione, di qualsiasi colore, una squadra arcobaleno. Costruire un’immagine è compito di Mandela e del capitano della squadra Francois Pienaar.
Clint Eastwood dopo averci raccontato la periferia di Highlane Park, Michigan in Gran Torino ci accompagna in Sud Africa nel film Invictus - L'invincibile.
Pure in Invictus ci narra di come sia difficile costruire una comunità multietnica.
Popolazioni asiatica, nera e bianca faticano ad adattarsi nel Michigan e solo il dramma finale ci concede una speranza.
La nazione del Sud Africa dopo anni di sofferenze per una violenta politica, cerca di unificare la popolazione nera con quella bianca. In Invictus c'è un finale inverso rispetto a Gran Torino. Si parte sempre da una società divisa, economicamente e socialmente, scontri fra i vari gruppi. Alla fine arriva una speranza di accordo solo con un dramma sociale ed epico quale può essere un grande avvenimento sportivo.
La gioia della vittoria per un attimo blocca la storia e l’attualità. Bambini accattoni neri abbracciano festanti i poliziotti bianchi. Bianchi e neri sono in piazza e festeggiano con musica e birra. E’ facile intuire che la sbornia sarà totale e collettiva.
Eastwood sa bene come raccontarci una storia e sa tenere fermo il timone anche con mare mosso. Nelle sue mani il filo conduttore non ha mai debolezze o tentennamenti. In Gran Torino e in Invictus i finali sono totalmente diversi ma riesce a emozionarci in entrambi e soprattutto ci costringono a leggere dentro di noi senza nessuna retorica. Buoni e cattivi si uniscono. Bianchi e neri si accomunano, non c’è nessun moralismo, anche se fino a un momento prima volevano uccidersi. Il moralismo, il perbenismo non entra nei film di Eastwood. Ci racconta un mondo composto di belli e brutti, buoni o cattivi, ma non partecipa, non giudica.
Sia il polacco Walt Kowalski, sia Nelson Mandela sono dei rivoluzionari. Desiderano che la tradizione e la storia non sia dimenticate ma neppure utilizzata per conservare lo status quo. Entrambi partecipano in prima persona nella rivoluzione della tradizione.
Kowalski si fa uccidere passivamente (o si uccide?) mentre potrebbe essere lui a fare giustizia sommaria.
Mandela osserva e partecipa emotivamente, magari scommettendo una cassa di vino. Anche lui potrebbe fare giustizia sommaria ma preferisce una soluzione propedeutica a una parvenza di pace.
I neri uccidono Kowalski in Gran Torino, in Invictus il protagonista Francois Piennar e la sua squadra, invece di uccidere Mandela, decidono, insieme con lui, di volere un paese diverso, vogliono un cambiamento nel nome dei colori della tradizione: “Il paese sta cambiando e anche noi dovremmo”.
I volti segnati, i lividi nel corpo, il sudore, i muscoli tirati, le urla delle spinte, le mischie forsennate, i colpi bassi, la rabbia e la voglia di vincere sono le armi per liberare l’odio insito da anni dentro a delle generazioni segnate dal razzismo. La partita e l’omicidio di Kowalski si assomigliano perché entrambe ci danno una speranza, il sogno di un’interazione fra popolazioni diverse.
Eastwood celebra il rito pagano, qual è un avvenimento sportivo. Durante una partita le divisioni non esistono. Una partita è una cerimonia sociale e popolare irripetibile.
Sono le due ore del match a rendere dinamica la relazione fra persone, fino a un’interazione perfino negli opposti. Se la speranza continuerà, non lo sappiamo, a Eastwood non gli interessa. Gli interessa il dramma, raccontarci il momento, l’attimo, una storia minuscola e particolare.
I temi del film sono molti.
Il rito della partita e del suo significato politico e sociale.
Nella fattispecie il fascino di una partita di rugby. I giocatori sembrano essere cattivissimi e violenti ma i forti contrasti non producono malvagità e mancanza di senso sportivo. Alla fine di un incontro le infermerie sono piene per una partita di calcio ma non per quelle di rugby, dove i giocatori rimediano solo lividi e contusioni.
Affascinante è il contrasto che Mandela cerca di trovare alla famosa danza Haka di Maori, danzata dai giocatori della Nuova Zelanda come un rito religioso prima della partita. Trova una soluzione per controbattere la danza con il fascino delle parole di una poesia:
“I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.
I am the master of my fate
I am the captain of my soul.”
È un inno alla volontà di ogni singola persona di essere artefice della propria vita.
La poesia versus danza. Non è una guerra. È una sfida tra grandi guerrieri, tra gladiatori, tra samurai.
La prigione di Mandela. Quella piccola cella fu il suo mondo per tanti anni per poi diventare il simbolo di una liberazione. È un ricordo da non dimenticare, ma non vuole essere un macigno capace bloccare una riconciliazione. Dalla prigione si passa al perdono. Mandela parla sempre di perdono come unica soluzione per liberarsi l’animo e sconfiggere il nemico di tanti anni. Abbracciare il vecchio avversario, lavorare insieme senza neppure avere un momento di rancore non è molto umano. Però è l’unica strada che porta alla conclusione. Il perdono vive solo nel cuore delle persone. A volte ci costringere a compiere gesti non desiderati, sicuramente non dovrebbe essere un gesto moralistico, come se contenesse una superiorità altrimenti, si perdonerebbe ma poi si cadrebbe nella vanità. Perdono senza vanità sembra impossibile ma è l’unico passo avanti possibile.
Il film è bellissimo. Invincibile non è la squadra di rugby del Sud Africa ma l’unico vero Invincibile è Clint Eastwood. Avanza come una macchina da guerra, riesce a terminare un capolavoro dietro l’altro con un ritmo micidiale. Ci accompagna dentro viaggi dell’immaginazione e dell’emozione senza lasciarci un momento. Costruisce scene epiche, senza mai dimenticare il ritmo e la successione possente della trama. Tutto è preciso, tutto è esatto, nulla lasciato al caso.
E’ difficile raccontare al cinema un avvenimento sportivo. Si rischia sempre di cadere nella retorica. In Invictus la macchina è dentro la mischia e il sonoro è cupo, soffocante come la fatica dei giocatori. Le riprese dal basso ci portano nel cuore del problema, nelle difficoltà della vita, nelle forti differenze sociali. La scena iniziale del film ci racconta di un muro, di un filo spinato. Un bel campo da rugby circondato da eleganti residence dove i giocatori sono tutti i bianchi, in mezzo una strada.
Dall’altra parte una bidonville pietosa dove ragazzini neri, straccioni e sporchi giocano a calcio. Improvvisamente un corteo attraversa la strada. È il ritorno a casa di Nelson Mandela dopo tanti anni di prigionia. E’ come una mischia di rugby, da una parte dei neri e d’altra dei bianchi entrambi spingono, entrambi sono pieni di rabbia e in mezzo c’è la palla che deve segnare la vittoria. Entrambi sono divisi ma la vittoria deve essere arcobaleno per segnare il cambiamento.