Jackie Regista: Pablo Larrain

Jackie

Anno: 2016

Regista: Pablo Larrain

Provenienza: USA, Cile, Francia

Autore: Roberto Matteucci

73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

“Stiamo andando nella terra dei pazzi.”

Chi avrà ucciso John Fitzgerald Kennedy il 22 novembre 1963? La mafia, il vice presidente Johnson, la CIA, Fidel Castro, i russi o più semplicemente Lee Harvey Oswald? La scelta di uno di questi soggetti non dipende da onestà intellettuale, troppi anni sono passati, ma solo da pregiudizio di partigianeria.

Non ho nessuna idea sul fatto, e non m’interessa averlo, oramai, anche se non fosse stato Lee Harvey Oswald, gli indizi sono totalmente contaminati, bisogna rassegnarsi.

Fortunatamente non si parla di questo in Jackie di Pablo Larrain presentato alla 73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Il regista cileno nel 2016 ha scelto due personaggi molto diversi da portare sullo schermo. Il poeta cileno Neruda e Jacqueline Lee Bouvier Kennedy Onassis, detta Jackie. Jackie era la moglie di Kennedy. Era sulla macchina con il presidente quando fu ucciso.

Larrain abbandona il tema politico e investigativo per entrare in quello personale e umano. Jackie chi era? Una donna forte e volitiva o una debole e guidata?

La premessa del regista: "Ho letto articoli, biografie, visto serie tv, letto interviste, ma ancora non so chi fosse Jackie. Ne abbiamo compreso una parte, ma non del tutto, e non volevamo nemmeno farlo: nemmeno Natalie l'ha compresa appieno, ma lei ha affrontato le cose con grande sensibilità. Cercare di comprenderla è come guardare una montagna intera, o cercare di catturare un fantasma. Sarà lo sguardo del pubblico a completare un disegno, a completare il nostro film." [i]

Larrain è un bravo regista, mantiene questo livello, evitando di dare certezze o sicurezze su di essa. Non la nasconde, i difetti appaiono in pieno e a volte provocano antipatia.

La struttura del film è un’intervista di Jackie a un giornalista, intervallata da lunghi flash back, riguardanti un momento specifico della sua vita: l’omicidio del marito e quello successivo, fino al funerale e alla sua cacciata dalla casa bianca.

Jackie si trova nella residenza dei Kennedy a Hyanis Port in Massahustes nel 1963. Il marito è morto da qualche mese, la donna parla con un giornalista come a discolparsi di certi suoi atteggiamenti posteriori all’assassinio.

La signora Kennedy quando viveva alla casa bianca partecipava alla gestione attivamente. Lo scopo era creare un ambiente culturale, da mecenate, ristrutturando le grandi stanze, arredandola in modo elegante.

A renderla famosa fu un documentario televisivo dentro casa bianca, era la prima volta. La signora Kennedy guidava le telecamere, e quindi tutti gli americani, a vedere il palazzo del presidente, di com’era organizzata la vita all’interno. Era una grande novità, la rese popolare per la delicatezza con la quale svolse il compito. Per il regista è un momento fondamentale:

"Ne parlava sempre come die giorni migliori della sua vita, e io ho inserito quello show nel film perché mi serviva come contrasto con quello che è accaduto dopo, come paradosso: il cinema è fondato su dei paradossi," dice. Ma gli spazi della Casa Bianca, ai quali la First Lady si era così diffusamente dedicata, sono stati per il cileno anche "un'estensione di lei e di quel che stava passando. Tutto in questo film è un'estensione di Jackie," dice, "e nel ricostruire a Parigi la Casa Bianca, affidandoci a quegli stessi arredatori cui si era rivolta lei in questo anni, abbiamo scelto quelle parti e quegli ambienti cui era possibile dare un senso psicologico allo spazio fisico." [ii] Larrain ci mostra dei frammenti in bianco e nero del documentario della CBS, montati alternativamente con il colore del film. In quei momenti Jackie appariva felice, ma sicuramente non lo era. Lo comprendiamo quando la sua assistente, durante il documentario, gli fa segno di sorridere, perché Jackie non sorride.

Era un momento felice per Jackie? Leggendo le future biografie non sembrerebbe.

Della famosa relazione del marito con Marilyn Monroe è fatto noto. Jackie si sarebbe potuto lamentare ad alta voce se anch’essa non si fosse presa qualche piccola libertà: Warren Beatty, Peter Lawford, Paul Newman, Gregory Peck, Frank Sinatra, William Holden, Marlon Brando, per parlare solo del ramo hollywoodiano.[iii]

E sempre parlando di clan, sembra che Jackie abbia accontentato anche altri membri della numerosissima famiglia Kenney, sia Robert, sia l’altro fratello Ted.

Il tempo passa e arriva il giorno di Dallas: “Grazie a Dio ero li con lui”. Come in un presentimento all’aeroporto di Dallas sta per svenire mentre stringe tante mani. Appare forte, resistente, ma dentro ha il presagio di star perdendo tutto, Jackie si assegna il potere di essere il simbolo del marito. In un’America incapace di riprendersi dal dramma, assegnargli il ruolo dell’organizzazione del ricordo, del funerale, voleva dire risparmiarsi un altro dolore collettivo. Il regista accentra il suo ruolo, con inquadrature decise e concentrandosi sulla figura anche fisica della donna. Viaggia con Robert Kennedy in ambulanza, il vestito ancora macchiato del sangue. Non vuole cambiar l’abito per farsi compatire del dramma subito.

Jackie mostrerà anche disprezzo nei confronti dei successori, come se il mondo dovesse finire con la morte di Kennedy. È scostante con il vice presidente Johnson, con il potente assistente Jack Valenti e offensiva nei confronti del Generale De Gaulle.

Organizza il funerale come una santificazione. Jackie rivuole una celebrazione simile a quella di Lincoln e la partecipazione dei capi di stato di tutto il mondo e del popolo. “Dobbiamo marciare al suo fianco”.ma non lo fa per il marito o per la patria, lo fa per se stessa. Testarda, fuori di testa, organizza e poi cambia opinione. Il funerale sta diventando un gioco terribilmente infantile. È un momento a se stante, non importa di chi è il corpo che i cavalli portano nel fusto del cannone. La processione a piedi non è dietro la bara del presidente, è dietro a Jacqueline Lee Bouvier Kennedy Onassis. I potenti del mondo marciano indietro, davanti c’è Jackie monumentale, vanitosa, vestita di nero che tiene per mano i due piccoli figli.

Quando tutto è finito, quando la bara è seppellita, i nuovi occupanti della casa bianca e soprattutto la famiglia Kennedy se la tolgono dai piedi immediatamente.

Nonostante l’atto di modestia del regista, “Sarà lo sguardo del pubblico a completare un disegno, a completare il nostro film”, Larrain ha un’idea è ben chiara e la rappresenta con decisione.

Nell’intervista contenitore, Jackie è diffidente con il giornalista, non vuole parlare dei difetti del marito, e chiaramente si allontana la verità, e forse mente anche sul reciproco amore. Nevrotica per calmarsi prendeva medicine in continuazione, appare, un momento come se stesse crollando mentre subito dopo appare solida come una roccia. Il risultato è una donna triste e problematica.

Qualche anno dopo, come per riottenere attenzione dell’opinione pubblica, sposerà il ricco e chiacchierato armatore greco Aristoteles Onassis.

Innocente, colpevole, giudizio neutro, sinceramente non m’interessa molto. Però è sempre meglio comportarsi come Jackie, andare a sposare un altro uomo celebre e continuare a divertirsi in svariati letti per riottenere i riflettori della fama, rispetto a quello che vogliono fare altre mogli di presidenti, vogliose di coprire lo stesso ruolo del marito, generando una dinastia da nepotismo napoleonico.

[i] http://www.comingsoon.it/cinema/interviste/pablo-larrain-ci-racconta-la-sua-jackie-inafferrabile/n59365/

[ii] http://www.comingsoon.it/cinema/interviste/pablo-larrain-ci-racconta-la-sua-jackie-inafferrabile/n59365/

[iii] http://www.ilgiornale.it/news/esteri/sfrenata-e-libertina-faccia-nascosta-jackie-kennedy-quante-1023382.html

Roberto Matteucci

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“There’d he even less chance in a next life,” she smiled.
“In the old days, people woke up at dawn to cook food to give to monks. That’s why they had good meals to eat. But people these days just buy ready-to-eat food in plastic bags for the monks. As the result, we may have to eat meals from plastic bags for the next several lives.”

Letter from a Blind Old Man, Prabhassorn Sevikul (Nilubol Publishing House, 2009)

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