Shutter Island Regista: Martin Scorsese

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Shutter Island

Regista: Martin Scorsese

Provenienza: USA

Anno: 2010

Autore Recensione: Roberto Matteucci

“La pazzia è contaggiosa.”

Nel L’isola dei morti di Arnold Böcklin una barca con un personaggio enigmatico, forse la morte stessa, arriva su un’isola desolata con alte rocce e un bosco ricco di alberi immensi.

È lo stesso inizio di Shutter Island, di Martin Scorsese.

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Nel 1954 una nave sta attraccando su un’isola solitaria, con rocce a strapiombo sul mare sempre mosso: Sull’isola arriva saltuariamente un solo traghetto controllato rigorosamente dalla polizia. Non è possibile uscire. Si tratta di un carcere criminale.

Dalla nave sbarcano un agente federale, Teddy Daniels - Leonardo di Caprio - con un suo aiutante. Inizia una storia districata su tanti filoni e su diversi piani temporali. Un film ricco di flash back: la fine della seconda guerra mondiale, l’arrivo degli alleati al campo di concentramento di Dachau.

È un film onirico, pieno d’incubi, tempeste, pioggia incessante e vento fortissimo. È un’introspettiva sulla malvagità dell’umanità.

Si parte proprio da Dachau per finire ai tanti pazzi violenti reclusi nel carcere, per passare allo stesso Teddy Daniels. In quegli anni gli Stati uniti sono sconvolti dalle indagini e dai sospetti del maccartismo, dalla paura del comunismo, della fuga e delle delazioni.

Ciò che avveniva all’epoca negli Stati Uniti è la stessa pazzia all’interno del carcere, accomunando universalmente carcerati e carcerieri, Non si distingue i folli dai sani, la pazzia ha contagiato tutto e tutti.

La società americana del tempo è traslata nel carcere criminale. È un film sulla paura di diventare pazzi. La nostra è una società incerta, non riusciamo a distinguere esattamente il bene dal male, abbiamo un profondo disagio dentro di noi e fatichiamo a manifestarlo. Ciò crea internamente a noi un mostro e crea un pazzo criminale per la stessa società. Non distinguiamo più chi siamo e forse non lo comprende neppure chi ci osserva.

D’altronde la pazzia ha contagiato tutti.

Scorsese porta sullo schermo due grandi emozioni. Quello del prison movie. Il carcere è un luogo claustrofobico per antonomasia. Sensazione accentuata da un vecchio castello, da celle buie, da volti e corpi deformati dei carcerati, dai suoni e dalle frasi senza senso, dal ciclone che ha colpito l’isola, dal profondo senso di solitudine e di distacco dal mondo. Inoltre il parossismo è accentuato dallo spazio chiuso. L’isola è impenetrabile, non si può fuggire perché a nuoto ci si sfracellerebbe sulle rocce, c’è solo una nave e con un ciclone in atto non può raggiungerla. E’ un delitto in una stanza chiusa. Prigione e spazio chiuso sono evidenziati dalla diffusione parsimoniosa della luce, accentuando, con il buio dei posti serrati, il senso di follia.

Scorsese ci diverte intrecciando i tanti elementi filmici, le tante passioni, i flash back, le varie dimensioni temporali e spaziali. Gioca con la natura umana, esasperando l’eccesso della pazzia come lettura del mondo e della realtà. Soprattutto lascia aperto il dubbio. L’ambiguità sulla vita e sulla follia pura.

Per farci entrare ancora in uno spazio più piccolo e ancora più soffocante, alla fine Scorsese ci porta all’interno di un faro. È come un faro di Edward Hopper. Solitario, isolato, dimenticato, separato dall’isola, accentua ancora di più la nostra inadeguatezza e disabilità nei confronti della realtà.

Roberto Matteucci

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“There’d he even less chance in a next life,” she smiled.
“In the old days, people woke up at dawn to cook food to give to monks. That’s why they had good meals to eat. But people these days just buy ready-to-eat food in plastic bags for the monks. As the result, we may have to eat meals from plastic bags for the next several lives.”

Letter from a Blind Old Man, Prabhassorn Sevikul (Nilubol Publishing House, 2009)

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