Philomena Regista: Stephen Frears
Philomena
Regista: Stephen Frears
Provenienza: USA; UK; Francia
Anno: 2013
Autore Recensione: Roberto Matteucci
“Ma io non alimento pettegolezzi.”
In Irlanda la chiesa cattolica ha offerto una possibilità di distinzione contro il protestantesimo degli inglesi. La forte dedizione al cattolicesimo è stata la base per la costituzione della nazione Irlanda. Stranamente, ma poi non tanto, le suore irlandesi sembrano essere fonte di grande attrazione per i cineasti inglesi. The Magdalene Sisters di Peter Mullan vinse il Leone d’Oro nel 2002, con una storia collocata in un terrificante convento.
Philomena di Stephen Frears racconta una vicenda simile. Presentato alla 70° edizione della Mostra Internazionale dell’arte Cinematografica di Venezia, al regista, nelle varie interviste, è stato chiesto se il film fosse una condanna contro la Chiesa Cattolica. Lo stesso accade al regista Peter Mullan nell’anno della vittoria.
In realtà se analizziamo il background dei due registi, le pellicole sono un attacco contro la nazione Irlanda, se leggiamo attentamente il quadro politico della zona. Certi ambienti irlandesi si ribellano, ancor oggi, contro gli inglesi sotto una connotazione schiettamente cattolica, e quest’aiuto non è molto gradito a qualche lobby. Ma questo è un altro discorso.
Se Magdalene si svolge in un monastero, con una narrazione cupa e drammatica, diverso stile linguistico è Philomena, più leggero e arguto. Il soggetto è il punto più debole del film di Frears. La drammaticità della storia è inesistente. Tutto si svolge con semplicità. La madre chiede i documenti alle suore, i quali sono stati distrutti. Allora chiede aiuto al giornalista Martin, il quale chiede informazioni all’ufficio adozioni degli Stati Uniti. L’ufficio, giustamente, consegna le informazioni solo al diretto interessato.
Una volta saputo il nuovo nome del ragazzo basta un controllo su internet e si scopre la nuova vita del figlio. È tutto molto banale, però qui entrano in scena gli astuti e ingegnosi sceneggiatori, meritatamente vincitori del Leone d’Oro della categoria. Il loro lavoro svolto è notevole, camuffano le mancanze della storia con bravura, utilizzando un’ironia inglese, con dei dialoghi brillanti.
Soprattutto l’abilità sta nel puntare tutta l’attenzione nel confronto e nelle battute fra i due personaggi: Philomena e Martin.
Philomena è un’anziana madre, la quale ha un trascorso pesante perché da adolescente ha avuto una scappatella innocente con un ragazzo durante una festa: “Hai tratto godimento dal peccato.” I genitori la rinchiudono con il bambino dalle suore, unico posto all’epoca disposto ad accogliere le giovani in difficoltà. In seguito il ragazzino sarà affidato a una coppia americana. Nonostante le ristrettezze, l’abbandono della famiglia, la dura esistenza nel convento, la volontaria concessione all’adozione del figlio a degli sconosciuti, riesce a costruire una nuova vita con un marito e una figlia.
Anziana rivolge il ricordo al passato, al figlio avuto da quel peccato. Non ha perso la fede, non accusa le suore, perché era cosciente di aver firmato l’atto di adozione. Riconosce onestamente che se esistesse una colpevolezza quella sarebbe solo sua. Non ha rabbia, tende a perdonare, a capire, a giustificare e anzitutto non ha il vezzo di incolpare agli altri.
È una persona semplice, predilige leggere romanzi all’Harmony, desidera avere buoni rapporti con tutti, è gentile, simpatica Il regista la riempie di ricchi primi piani e la condisce di frasi a effetto: “È in titanio cosi non fa la ruggine.” “Sulla Ryanair si paga tutto.”
Il suo contraltare è Martin. Sappiamo che era uomo in carriera, ma a seguito di un fraintendimento su una sua frase, si trova disoccupato. A differenza della donna ha un rancore contro tutti, relazione difficile con gli altri, non tende a socializzare, anzi risponde con un sarcasmo cattivo.
Non gli interessa la storia di Philomena, la accetta perché tutti deridono la sua volontà a scrivere un libro sulla rivoluzione russa. Fra i due è Martin quello con più problemi, è la persona da guarire da un male interno, nonostante il suo bel mondo. Il regista c’è lo presenta nella fatica esistenziale nella scena dell’incontro di un ex collega giornalista nel viaggio in America. Martin è in classe economica mentre l’ex compagno di lavoro è in prima classe. È il frivolo passato di Martin, con un dolore infinitamente inferiore alla perdita di un figlio, ma da esso subito con un cruccio maggiore.
Philomena ha le giuste parole, l’opportuna medicina per il suo risentimento: “Chi viaggia in prima classe non è detto che sia di prima classe.” E sarà esso alla fine ad avere imparato qualcosa. La ricchezza della storia è la diversità dei due caratteri. Godibilissima è la scena del racconto di Philomena di un libretto rosa a Martin. Esso è frastornato, abituato ai livelli elevati, ai vip, non conosce la vita della gente normale. Dovrà sforzarsi molto per ottenere una conoscenza della sensibilità e della gentilezza.
I due attori, Steve Coogan e Judi Dench, sono deliziosi. Hanno recitato ogni dettaglio con la massima professionalità. Soltanto quei miscredenti della giuria di Venezia potevano avere la cecità di preferire la Cota alla Dench come Coppa Volpi miglior attrice. È la conferma del nostro provincialismo e dell’urgenza di una rottamazione di certi personaggi. Il film inizia con un coro e una voce fuori campo. Philomena prega in una chiesa illuminata con delle candele. Di seguito l’epoca della ricerca e la sua giovinezza s’intrecceranno. La vita nel convento è sgranata, la pellicola, le immagini hanno un tono non a fuoco, il regista discrimina i due momenti, cercando di concedergli un tono di realtà.