The Lady Regista: Luc Besson
The Lady
Regista: Luc Besson Provenienza: Francia; UK
Anno: 2011
Autore Recensione: Roberto Matteucci
”Non ci resta che aggrapparci alla speranza.”
Aung San Suu Kyi è ora in pratica alla guida del governo del Myanmar, anche se molto potere e controllo sono rimasti nelle mani dell’esercito. La sua elezione come deputato al Parlamento birmano è stata una battaglia prolungata di una donna testarda e ostinata, capace di utilizzare al meglio un condiscendente marketing internazionale.
Il Myanmar è stata colonia inglese per lungo tempo. Nel 1942 i giapponesi la invadono. A facilitare l’occupazione ci fu Aung San. Eroe nazionale e padre di Aung San Suu Kyi. La speranza di avere il loro sostegno nell’indipendenza dagli inglesi fu la ragione del suo supporto. Ben presto capì l’impossibilità di realizzare il suo scopo ma con una dominazione giapponese sarebbero state peggiori. Perciò contrattò un accordo segreto con gli inglesi. Finita la guerra, la Birmania non ebbe subito l’indipendenza, dovette aspettare il 4 gennaio del 1948.
Aung San non ebbe mai la soddisfazione di vedere il suo paese libero, perché nominato primo ministro, fu ucciso nel 1947 da un rivale militare birmano. The Lady del regista francese Luc Besson inizia il film raccontando quest’ultimo episodio. In una bellissima casa di Yangoon, la bambina Aung San Suu Kyi appare in tutta la sua ingenuità mentre è coccolata dal padre, è l’idillio in un ambiente sereno e pieno di amore. Sarà l’ultima volta cui lo vide vivo.
Il resto della storia racconta l’agiografia della donna, dividendo la sua vita secondo la realtà: metà birmana e metà inglese. Trasferita da ragazza in Inghilterra per gli studi, si sposò con un professore universitario, Michael Aris, con il quale ebbe due figli Kim e Alexander.
La sua cultura nasce a Oxford, conforme ai modelli occidentali. La dicotomia: privata o pubblica, famiglia o nazione saranno i topoi del film. Nel 1988 lascerà Oxford per tornare -credeva - temporaneamente a Yangoon ad assistere la madre morente. La sua esistenza fu travolta dagli eventi politici e militari. Sarà uno scontro a distanza con i generali dittatori, accettando la loro sfida si costrinse a fermarsi in Myanmar per il resto della vita.
Sulla descrizione dei generali, Luc Besson si diverte mimetizzandoli come giullari di un circo: le divise ricche di medaglie, le facce da bevitori di taverne del porto, le nefandezze suggerite da una chiromante folle. Non appaiono come nemici spietati, ma come delle caricature, una via di mezzo fra Pinochet e Hitler. Dobbiamo ridere o piangere? Pure gli scagnozzi dei generali, dei mestieranti del lavoro sporco, diventano macchiette colorate: il comandante della frontiera, attraverso cui passa la droga, ha il viso segnato da tatuaggi, in contrasto con i vestiti bianchi e i volti da bravi ragazzi degli studenti.
Il tratteggio dei generali ha un effetto contrario, il camuffamento nasconde chi concretamente sono, da dove nascono e perché si trovano a comandare il paese. Un fazzoletto rosso girato intorno al collo non è un simbolo; simbolo è il generale affannato nella corsa: con le sue medaglie, si nasconde per ascoltare le fantasie di una veggente. Il regista lo accompagna con un primo piano, riempitivo della scena; si deve dimenticare il contesto, si deve deridere annichilendo la conoscenza.
L’esecuzione fumettistica esclude la possibilità di comprendere il padre politico della dittatura, perché non sono delle creature piovute dal cielo, in realtà hanno delle consolidate entrature interne e internazionali. L’aspetto folclorico è una scelta precisa del regista, in similitudine con l’altra cifra stilistica: l’agiografia.
L’autore ha uno scatto autoironico quando Michael, il marito trasognante, proclama alla moglie: “lo sai che il mondo è d’accordo per dichiararti santa?” Perché Luc Besson tratta la leader birmana come se fosse Giovanna d’Arco, sulla cui vita diresse un film nel 1999.
Per entrambe le donne usa le stesse motivazioni. Aung San Suu Kyi è sempre in prima fila nelle manifestazioni. Quando i soldati gli puntano i fucili per obbligarla a indietreggiare, essa continua a camminare con lo sguardo fiero, illuminato e segnato da qualche Dio. Come Giovanna d’Arca attraversava indenne le cruente battaglie contro gli inglesi.
Che fosse una santa s’intuisce dall’inizio. Da bambina il suo primo piano è continuamente segnato da una luce. Nel crescere è il profilo volitivo e da asceta a battere il tempo della narrazione.
Quando suona il pianoforte, si raggiunge l’apoteosi diabetica. Nel 1991 - grazie all’azione del marito rimasto in patria - Aung San Suu Kyi è premiata con il premio Nobel per la pace. (Lo sapevate che per partecipare basta presentare un curriculum?)
La consegna dei premi per il regista ha una struttura parallela. Nell’immensa sala delle premiazioni di Oslo, il marito e i figli camminano irrequieti per ricevere il famoso premio. A Yangoon - agli arresti domiciliari la vincitrice marcia nervosa in casa, in attesa di una trasfigurazione, come Gesù di fronte a Elia e Mosè sul monte Tabor. Il teletrasporto avviene metaforicamente: a Oslo l’orchestra dopo la premiazione inizia a eseguire Pachelbel's Canon del musicista tedesco Johann Pachelbel. La signora birmana siede al suo pianoforte e, ascoltando la musica ricevuta via radio, inizia a suonare accompagnando la sinfonia nella solitudine della sua immensa casa.
Segue poi un crescendo di santificazione con nomi altisonanti sparati nel mucchio: Desmond Mpilo Tutu, Dalai Lama. Del Myanmar che rimane? Di una nazione appassionate, religiosa, ancestrale? Poco e niente.
Il film manca di atmosfera, di sensazione, di cifra stilistica. Non bastano i longyi indossati dai ragazzi per plasmare il Myanmar. Sono inutili le melense cartoline della Pagoda di Shwedagon, o le documentaristiche donne Padaung; come fuori luogo sono le immagini della marcia dei monaci per le strade di Yangon. Luc Bresson non è George Orwell. Lo scrittore inglese con Giorni in Birmania fu un entusiasmante e credibile costruttore di ambientazione degli indo-inglese.
Un libro su Gandhi è nelle mani di Aung San Suu Kyi e di altri seguaci per dispiegare un dettaglio semantico. Perché Gandhi e la Aung San Suu Kyi hanno qualcosa in comune. Entrambi hanno avuto un’educazione occidentale, entrambi sono influenzati dai paesi dei loro studi, essendo più figli dell’Inghilterra che dei loro paesi nativi.
La mancanza di atmosfera nasce dalla manchevolezza principe: l’occidentalizzazione. Besson rifiuta dubbi, umanizzazione, difetti. La perfezione umana scatena l’ambizione di applicare un linguaggio altrettanto divino; è impossibile, e il regista accantona la voglia di comprendere; con una tesi prevenuta e si scatena plasmando una Aung San Suu Kyi uguale a Giovanna d’Arco.
Il film perde di passione, il linguaggio diventa falsamente poetico per stabilizzarsi in fascianti riprese di luce mistica sulla signora. Il titolo è rappresentativo The Lady in inglese. È la stessa lingua con cui la prigioniera scrive su cartelloni da appendere e mostrare ai soldati di guardia. Se non sono scritte in birmano ma in inglese, la ragione è precisa. D’altronde il regista si perde anche nella lingua da scegliere, unendo, trasformando e confondendosi.
Il privato è tratteggiato per creare un’alternativa al segmento politico. Un marito incapace nella gestione famigliare rimane solo con due figli ancora adolescenti. Poteva essere la parte psicologica, doveva dare il carburante, la vitamina energetica invece rimane punteggiata in qualche sparuto brandello. Il marito sta morendo a Oxford, lei manifesta una finta tristezza, confermando con fermezza e determinazione il desiderio di non lasciare il Myanmar. Prevale l’impulso politico. Prevale la superbia della donna. Solo il figlio Kim ha il coraggio di accennargli un leggero rimprovero per la sua lontananza, il giorno del decesso di Michael.
Essa oramai veleggia in paradiso, tronfia, piena di se, incapace di rappresentare lei come donna. Con dei fiori sempre in testa, Michelle Yeoh è un’icona mitizzata. Luc Bresson s’imbroglia e nonostante la buona volontà soffre dello stesso peccato: la superbia.