Inferno Thai. Dodici anni in un carcere di Bangkok
Inferno Thai. Dodici anni in un carcere di Bangkok
di Warren Fellows scritto con Jack Marx
L’airone, Roma
2015
Autore recensione: Roberto Matteucci
“… i thailandesi … sono un popolo incredibilmente tenace, e la loro pazienza li porterebbe a vincere una guerra di logoramento. Inoltre, quando la loro pazienza si esaurisce, sono forse le persone più crudeli del mondo.” (Pag. 34)
Certo, la Thailandia è il paese dei sorrisi. Gli abitanti - di tutte le età, di qualsiasi genere, censo sociale – mostrano dei sorrisi allegri, pieni di grande leggerezza, capaci di renderci tranquilli e sereni. Eppure! Sono stato tanti anni in Thailandia e ho imparato di non litigare mai con un thailandese. Sono dotati di grande motivazione e possono, sotto pressione, essere capaci di grandi gesti violenti.
Lo stesso pensiero lo ho trovato nel libro Inferno Thai. Dodici anni in un carcere di Bangkok (L’airone, Roma, 2015) di Warren Fellows scritto con Jack Marx
È un libro autobiografico nel quale, Warren Fellows, racconta il lungo periodo di detenzione in alcune carceri thailandesi, accusato di spaccio di droga.
Un reato grave, gravissimo.
La storia parte con l’esposizione della sua vita prima dell’arresto. Soprattutto l’autore cerca di puntualizzare o meglio di giustificare il suo reato: trafficante internazionale di grandi quantitativi di droga. Un delitto infame, malvagio, non facilmente giustificabile. L’autore cerca di derubricarlo, di considerarlo come un semplice peccato. I peccati avranno, forse, un giudice inflessibile ma comprensivo. Vendere droga ad adolescenti non è invece un semplice peccato.
È una questione importante perché serve a elevare il racconto, uscendo dalla mera esperienza personale per utilizzarlo come senso della pena: deve essere retributiva o rieducativa?
Fellows allarga il concetto quando afferma: “Quando si mette in galera qualcuno, colpevole o innocente che sia, si mettono dentro anche gli innocenti che gli vogliono bene, e ce ne sono sempre. Anche il peggior assassino ha avuto una madre.” (Pag. 31)
Perfino Hitler ha avuto una madre e la sua foto è stata sempre appoggiata sulla scrivania del dittatore. Pure un ragazzo ucciso da un’overdose ha una madre, per analogia non muore anch’essa?
Di fronte al nonsense dell’autore sui perché si dedicò allo spaccio internazionale: “Perché ho bisogno di soldi? Non sto poi così male.” (Pag. 17), Fellows si ritrova nel carcere thailandese. In realtà sono diverse le prigioni in cui è transitato: Maha Chai, Lard Yao e la più temibile Bang Kwang, la grande tigre: “il carcere più temuto al mondo” (Pag. 132) L’ingresso nella terribile grande tigre è un momento umano. L’autore riconosce la sua autorità, la sua potenza antropomorfica: “Big Tiger era viva. Un’enorme cosa vivente.” (Pag. 197) L’edificio è il più rigido dei carcerieri, severo e cattivo, appare come un essere umano, non un ammasso di sporchi mattoni.
Una volta dentro la prigione inizia un elenco di episodi raccapriccianti, atroci, impressionati. Le catene stringenti, la puzza, i cessi inesistenti, gli escrementi ovunque, i topi, gli scarafaggi, la droga (“… l’eroina stava dettando le regole nella mia vita …” Pag. 103), i vermi, l’isolamento in celle strette o super affollate e le tante e crudeli punizioni (come la partita a calcio degli elefanti e con una palla con dentro un detenuto).
C’è dell’altro, ancora più sconvolgente: i fantasmi. Gli spettri vivono dentro le prigioni thailandesi perché sono il luogo del risentimento, dell’acrimonia. Sono anime rancorose, girano nel carcere alla ricerca della propria libertà.
Ma manca anche qualcosa, come la violenza sessuale, salvo un breve episodio, è totalmente assente: “Le guardie disapprovavano le violenze sessuali a Maha Chai.” (Pag. 121)
Fellows in tanta miseria umana, trova la tenacia o forse la necessità di avere una forza spirituale, arrivando a una riscoperta di Dio: “Per la prima volta, cominciai a interrogarmi sull’esistenza di Dio. Considerando la piega che aveva preso la mia vita, sembrava perfettamente sensato chiederselo.” (Pag. 113)
Appartiene a questo episodio il miracolo del rosario donato a un detenuto musulmano in fin di vita. Così come il richiamo al libro di Daniele: “Allora il re ordinò che si prendesse Daniele e lo si gettasse nella fossa dei leoni. … Poi fu portata una pietra e fu posta sopra la bocca della fossa: il re la sigillò con il suo anello e con l’anello dei suoi dignitari …” (Daniele 6,17:18)
La similitudine è equilibrata, la fossa dei leoni può essere considerata un carcere avanti Cristo, una pena tremenda, dove solo con la fede e l’aiuto di Dio ci si può salvare.
Scritto in maniera incerta, specialmente nella parte finale cambia repentinamente senza motivazione la struttura. Forse per abbreviare l’ultimo periodo è scritto come un diario approssimativo. Come superficiale sono alcune informazioni: “Il presidente Roosevelt si tormentò per tre settimane … se sganciare o meno la bomba atomica in Giappone.” Pag. 37). Non fu Harry Truman a decidere di lanciare l’atomica? Franklin Delano Roosevelt morì il 12 aprile del 1945, boh!
Merito dell’autore c’è la creazione di un sottile filo di leggerezza nel marasma della violenza. È capace ammorbidire il tono con ironia:
“Veniamo ammanettati e portati via attraverso la hall dell’hotel. Incredibilmente, quando passiamo davanti alla reception, il concierge ci presenta il conto.” (Pag. 55)
“… aprii il rubinetto e mi ritrovai con un pesce in mano; non avevo mai preso un pesce in vita mia finchè non arrivai a Bang Kwang.” (Pag. 134)
“Caro fratello Gary, io e questa ragazza ci sposeremo presto. E indovina un po’? È un’assassina!” (Pag. 173)
Poi c’è l’esodio spassoso dei maiali. È vero, non c’era violenza sessuale all’interno del carcere, non esistevano rapporti omosessuali, perciò i detenuti cercavano soddisfazione in approcci carnali con dei maiali. Amplessi ovviamente a pagamento: “Dopotutto, non volevi beccartene una brutta.” (Pag. 178)
A fine lettura rimangono dei momenti piacevoli e altri meno.
Sicuramente non aiuta la sparata forte e immediata dei vermi dalla testa, raccontata già nel prologo proprio per esagerare il racconto, ma in realtà frena la narrazione.
Filosofico è invece la descrizione del peggiore nemico di un detenuto condannato all’ergastolo: il tempo. È impossibile controllarlo e dominarlo, ma si rimane succubi.
Sono tanti i libri, i film sulle detenzioni crudeli. Ricordo Il libro del buio di Tahar Ben Jelloun sulla prigionia in un carcere marocchino di alcuni soldati accusati di colpo di stato.
Inferno Thai è molto più diretto ma perdendo autorevolezza per l’esagerazione.
Alla fine del libro cosa pensiamo della condanna, deve essere retributiva o rieducativa?
Quella di Fellows è stata retributiva o rieducativa? Era colpevole di un delitto dalle grandi conseguenze sociali. Ha imparato la lezione? Pensate che possa spacciare ancora in Thailandia?
Sarà lo stesso autore a rispondere: “Io non ritornerei in Thailandia per niente al mondo.” (Pag. 35)