Nemesi di Philip Roth

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Nemesi di Philip Roth

Einaudi, Torino

2011

Autore recensione: Roberto Matteucci

Perché? “Questo maniaco del perché”. (Pag. 173)

Nemesi di Philip Roth (Einaudi, Torino, 2011) è un libro sui perché, di una persona incapace a ridere, a raccontare una spiritosaggine.

Inconsapevole del significato di un uomo - frammento invisibile nei milioni d’anni di un universo illimitato - Mr Cantor è capace di caricarsi il peso del mondo intero, mentre da millenni gli uomini cercano di trasferirlo a Dio.

Lui invece se lo sistema sulle sue forti spalle d’atleta e se lo porta in giro.

Mr Cantor è un giovane atleta e professore d’educazione fisica.

Vive nel quartiere ebraico di New York. Orfano di madre e abbandonato dal padre è educato con amore dalla nonna e, con virilità, dal nonno.

Rappresenta un modello per tanti ragazzi: forte, senza paura sa affrontare il mondo e i tanti cattivi della città.

La seconda guerra mondiale è verso la fine, le ultime battaglie sono combattute in Europa e nell’oceano Pacifico.

All'improvviso si diffonde nella città un’epidemia di polio, molti ragazzi sono destinati a morire o rimanere paralizzati.

Parallelamente nello stesso momento, migliaia d’ebrei vivono i loro ultimi giorni rinchiusi in lager destinati ad essere uccisi.

Perché Dio è un cattivo e permette tutto questo?

Mr Cantor non si dà pace. Non riesce a comprenderlo. L’amore della sua famiglia, l’adorazione della sua ragazza, la felicità dei futuri suoceri di averlo in casa non gli sono sufficienti.

Perché sono i migliori a morire?

Mr Cantor inizia la sua battaglia personale contro Dio.

Lo sfida a duello, lo cerca, lo invoca, lo insulta, ma Dio non si mostra.

“Cosa voleva dimostrare? Che sulla terra abbiamo bisogno degli storpi?” (Pag. 110)

“Solo un demonio poteva inventare la polio. Solo un demonio poteva inventare Horace. Solo un demonio poteva inventare la seconda guerra mondiale.” (Pag. 171)

Ma Dio non ha paura di Carter. Carter ha paura di lui.

Philip Roth è un fantastico scrittore.

Incomparabile a creare personaggi simboleggianti un’intera generazione.

Mr Carter è la sua creatura, è il taverniere ebreo del Il processo di Shamgorod.

Elie Wiesel affrontava Dio allo stesso modo. La diaspora era dovuta a Dio.

Era lui il colpevole.

Ad affrontare Mr Carter arriva in scena, verso il finale Roth stesso. Personifica un ragazzo ebreo, anche lui colpito da polio.

Lui non si è disamorato di Dio come Mr Carter, lo ha solo liberato dalle sue presunte colpe. Lo affronta da ateo, distaccato e più propenso ad intravedere responsabilità umane.

Individua nella scarsa ironia il senso di colpevolezza di Mr Carter.

Non sapere quali sono i propri limiti dà un frutto spietato d’immoralità.

Il linguaggio di Roth è esemplare. Preciso, efficace, tratteggia aspetti umani in maniera incomparabile.

Divide il romanzo in due parti.

La prima è più aperta e solare. Il caldo e l’afa non opprimono la fluidità del racconto. Anche i personaggi ancora sono liberi e speranzosi.

Nella seconda parte la sciagura è avvenuta. Il tono diventa cupo, si è persa la speranza e si attende la morte.

Roberto Matteucci

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“There’d he even less chance in a next life,” she smiled.
“In the old days, people woke up at dawn to cook food to give to monks. That’s why they had good meals to eat. But people these days just buy ready-to-eat food in plastic bags for the monks. As the result, we may have to eat meals from plastic bags for the next several lives.”

Letter from a Blind Old Man, Prabhassorn Sevikul (Nilubol Publishing House, 2009)

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