Tel Aviv di Elena Loewenthal

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Tel Aviv di Elena Loewenthal

Feltrinelli, Milano

Maggio 2009, prima edizione

Autore recensione: Roberto Matteucci

“Nella realtà, molti israeliani anche ormai decisamente laici non li hanno nel palato, questi gusti, e faticano a ordinare piatti taref, cioè “impuri”, non per ragioni religiose ma per una sorta di tabù pregresso.” (Pag. 117)

È l’11 aprile del 1909. Un gruppo di ebrei si riunisce in Palestina su un territorio sabbioso e senza nulla intorno. È il giorno del sorteggio; i lotti dei terreni, sui quali potrà essere costruita una nuova città, saranno assegnati ai coloni con un’estrazione.

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Il libro di Elena Loewenthal, Tel Aviv. La città che non vuole invecchiare (Feltrinelli, Milano, I edizione, maggio 2009), ci mostra una vecchia foto di quel giorno.

Il fotografo è di un ebreo di origine russe Avraham Soskin.

È in bianco e nero, sul fondo c’è una duna di sabbia, qualche sterpaglia intorno. Nella parte in basso c’è sempre e solo sabbia, segnata da tante impronte di scarpe. Infatti, più avanti, al centro, c’è un gruppo di persone. Tutte elegantemente vestite, in contrasto con il caldo del giorno. Ci sono uomini, donne, dei bambini, e perfino un cane tranquillo. È impressionante la tanta sabbia intorno. Sembra un paesaggio impossibile, un posto nel quale nessuno vorrebbe trasferirsi.

Sono stato a Tel Aviv nel 2014, vale a dire centocinque anni dopo.

È emozionante come tutta quella sabbia sia sparita, sepolta dalle tante case e strade. Quella misera sterpaglia si è trasformata in verdi e accoglienti parchi in cui riposarsi, allenarsi o mangiare. Il solitario cagnolino è diventato una sfilata di cani, aitanti, di tutte le razze.

È il miracolo di Israele e della popolazione ebrea.

Da quella foto timida e modesta è nata una città unica, progredita, civile, bella, multietnica, socialista (“Il sionismo non si è mai negato una sua vena di socialismo poetico, anche questo non va taciuto.” Pag. 42), laica, religiosa, divertente, spericolata, turistica, emozionante. Il nulla si è trasformato in mille grattacieli slanciati verso il cielo. I bambini del 1909 avrebbero potuto correre senza pericoli, ora devono stare attenti per il traffico intenso di una metropoli piena di attività, di economia moderna: “Ma non si può negare che, fondata su due dune cent’anni fa, Tel Aviv sia fatta di mattoni, cemento e non meno di parole.” (Pag. 13)

Elena Loewenthal parte da quel lontano giorno per descriverci la sua Tel Aviv.

Si percepisce l’amore per la città, soprattutto per il valore morale del suo sviluppo, l’orgoglio per chi ha innalzato un mondo intero su della sabbia.

La scrittrice unisce episodi storici con delle camminate serene per delle belle vie.

Tel Aviv è multietnica e multilingue, come nessun luogo al mondo: “Tel Aviv è uno strabiliante melting pot, una pentola piena di lingue, colori, pensieri e sapori diversi.” (Pag. 94)

Gli israeliani parlano una lingua storica, antica, quasi scomparsa e ripresa per merito di Eliezer Ben Yehudah. Fonderà, alla fine del Novecento, l’accademia della lingua ebraica e – un altro miracolo – una lingua antica, destinata all’oblio o limitata nell’uso, è ritornata l’idioma parlato e scritto di una nazione.

Elena Loewenthal durante il tranquillo passeggio ci mostra edifici, negozi polverosi, scuole, viali alberati. Sotto, l'autrice immagina la sabbia, in alto il limite infinito del cielo. I tanti luoghi, nonostante la giovane età di Tel Aviv, hanno una sua storia profonda e alcune volte strana.

Come il racconto dei templari tedeschi nazisti che vivevano nel quartiere di Sarona. Furono cacciati dopo la guerra ma avevano costruito un dedalo di sotterranei usati in seguito dall’esercito israeliano.

Non può mancare il classico giro di Yafo-Giaffa, inglobato nel comune di Tel Aviv dal 1950. Antico quartiere, gli arabi furono cacciati durante guerra del 1948, rimanendo un numero limitato. Yafo è ben visibile, di notte è ricca d’illuminazione. Intorno alla chiesa di San Pietro ci sono tante belle eleganti viuzze. Il vecchio porto è pieno di ristoranti. È tutto così perfetto, forse troppo: “I televiviani, guardando con disprezzo alla Giaffa di oggi, la considerano uno specchio per le allodole, cioè per i turisti.” (Pag. 60).

La scrittrice è poetica, l’amore per Tel Aviv è profondo, tenero. Lo scrivere è delicato, lirico, negli occhi c’è la Tel Aviv d’oggi ma nel cuore ha la storia della città, coincidente con il passato degli ebrei.

Non si può scindere Tel Aviv dagli avvenimenti del secolo scorso. La diaspora, il nazismo, i campi di concentramento, l’olocausto sono sempre ripresi. Elena Loewenthal è come Tel Aviv: “È una città che ha cent’anni di storia e duemila dietro di sé.” (Pag. 14)

Tel Aviv appare una volta nella Bibbia. Ezechiele 3,15: “Giunsi dai deportati di Tel-Abib, che abitano lungo il fiume Chebar, dove hanno preso dimora, e rimasi in mezzo a loro sette giorni come stordito.” Letteralmente significa “la collina di primavera”, un senso reale di una città luminosa e allegra.

I mille locali sono pieni di ragazzi. Si divertono e tanti provengono da tutto il mondo per unirsi in un centro vivo e vitale.

Roberto Matteucci

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“There’d he even less chance in a next life,” she smiled.
“In the old days, people woke up at dawn to cook food to give to monks. That’s why they had good meals to eat. But people these days just buy ready-to-eat food in plastic bags for the monks. As the result, we may have to eat meals from plastic bags for the next several lives.”

Letter from a Blind Old Man, Prabhassorn Sevikul (Nilubol Publishing House, 2009)

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