Charlie Says Regista: Mary Harron
Charlie Says
Regista: Mary Harron
Cast: Suki Waterhouse, Hannah Murray, Matt Smith, Annabeth Gish, Merritt Wever, Chace Crawford, Sosie Bacon, Kayli Carter, Kimmy Shields, Grace Van Dien, India Ennenga, Bridger Zadina, Lindsay Farris, Marianne Rendón, Sol Rodriguez
Anno: 2018
Provenienza: USA
Autore recensione: Roberto Matteucci
“I am perfect.”
Caratteristiche delle sette, sia religiose, sia laiche, è sempre la presenza di un guru falsamente onnisciente e onnipresente, il quale domina gli adepti fino a essere considerato un Dio.
Alla base c'è una dottrina semplice e sincretica: molti richiami alla Bibbia, alle religioni orientali, ai maestri della psicologia. I santoni si spacciano per essere i portatori assoluti dell'unica e autentica loro interpretazione.
La principale conseguenze all'interno del gruppo è la proibizione a esprimere critiche, opposizioni e dubbi; ogni affermazione del maestro è un dogma autoritario, e comprende l'interdizione degli accoliti di partecipare alla vita sociale.
Il collante fra i membri sono i riti di tutti i generi. Abbonda il ricorso alla magia e alla fantasia, sia erotica, sia sadomaso.
Ai componenti è offerto: “... calore umano, attenzione e sostegno, condivisione di un fine e rapporti di fraternità, in una parola protezione e sicurezza. Insomma attraverso la comprensione, il dialogo, l'incontro, la vicinanza e la mutualità le persone recuperano il senso dell'appartenenza.” (1)
Perciò ogni aderente ha una possibilità unica, speciale: “ … satura anche il bisogno di uscire dall'anonimato, di sentire l'importanza della propria presenza ed azione nel mondo.” (1)
La “famiglia” guidata da Charlie Manson risponde a queste proprietà.
La storia della setta di Manson è nota. La fine fu clamorosa; una serie di omicidi, una condanna a morte trasformata di ergastolo solo per la sua abolizione in California. Il clamore fu mondiale. Il risultato fu la creazione di un marchio pop con il nome di Manson. La fama arrivò con la crudele uccisione della giovane ma famosa attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polaski. Sharon Tate aveva ventisei anni. La sua carriera cinematografica era appena iniziata con grande successo, recitando anche con Tony Curtis e Claudia Cardinale; il giorno del suo assassinio era in cinta, all'ottavo mese.
Tanti sono i film, libri, serie tv, opere teatrali su Manson e le sue vicissitudini. Ci riprova la regista canadese Mary Harron con Charlie Says presentato alla 75° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Charlie Manson fu il centro della “famiglia”; con la sua crudeltà, il suo ego smisurato, il suo narcisismo criminale. Esso determinò la catastrofe per tutti.
L'autrice si disinteressa di Manson, ha altre velleità, altre finalità, quasi politiche. Si concentra sulle donne, sulle tre partecipanti agli omicidi: Susan, Patricia e Leslie. Furono condannate all'ergastolo, Patricia e Leslie si trovano ancora in carcere, mentre Susan è morta nel 2009.
L'interesse per queste donne è evidente: “... come è perché sia riuscito a convincere queste ragazze a commettere quello che hanno commesso, lui era uno psicopatico, matto, lo sappiamo ma loro erano in effetti delle ragazze assolutamente normali.” (2) Il colpevole è Mason e gli adepti sono delle vittime. Una semplificazione politica e umana.
Il film inizia il 9 agosto 1969, giorno dell'assassinio di Sharon Tate. Una donna è sotto la doccia, un'altra mangia avidamente un cocomero mentre un uomo fa l'autostop cercando di bloccare una macchina. Effetto giorno. Una macchina si ferma e un ragazzo gli dà un passaggio.
Con un flash forward la storia si sposta avanti di tre anni. Il processo, lunghissimo, è finito e Patricia, Susan e Leslie sono in un carcere femminile. Le ragazze sono riprese dietro le sbarre. Successivamente c'è un alternarsi fra la vita in prigione e i flash back dell'esistenza nella comune di Spahn Ranch. Nel ranch californiano l'indomito Charles Mason guida con pugno di ferro il suo seguito, composto quasi totalmente di femmine.
La personalità dei protagonisti.
Charlie ha ovviamente tutti i difetti del mondo ma sicuramente non è un pazzo.
Cresce in una famiglia con problemi con la legge e di droga.
Charlie è superbo, altezzoso, tratta tutti con disprezzo fino al loro totale possedimento sessuale. Ha una lussuria senza amore. È costantemente insoddisfatto, geloso, avido: vorrebbe fare il cinema, vorrebbe essere un cantante. Sarà proprio l'invida a distruggerlo, il rifiuto di produttore musicale di una sua canzone scatenerà il peggio. L'ira è la risposta al diniego, il suo cancerogeno ego sobillerà la vendetta. Il risultato è – oltre quelli criminali – una “famiglia” senza controlli sessuali e umani, con un sadismo nervoso, con una depravazione assurda fino alla poligamia.
Non va meglio a Susan, Patricia e Leslie.
Esse manifestano una pigrizia depressiva, una inerzia di vivere, una costante abulia. Le loro scelte sono sempre limitate per volontà personale, per libero arbitrio. Pensano di pagare le proprie decisioni con una carnalità da ninfomane. È l'accidia: donarsi fisicamente e mentalmente per sopravvivere, il peggiore del comportamento umano. L'esibizionismo si lega al loro atteggiamento passivo remissivo, e alla loro demotivazione a scegliere.
L'unione di questi elementi è la risposta alla regista: “noi apparteniamo tutte a Charlie.”
La scena fondamentale è quando Manson urla per motivare i discepoli, disposti in circolo intorno a lui. Vuole comandare le persone, annichilirle. Strilla il suo potere, esso ha la facoltà di uccidere chiunque in quel cerchio. La camera è impazzita, sta dominando tutti.
Mary Harron continua con queste riprese. In molte altre sequenze c'è lo stesso stile e lo stesso soggetto: Charlie ordina di togliere i vestiti a una ragazza, e gli altri membri ubbidiscono. Domina la loro sessualità, decreta chi e come possono accoppiarsi carnalmente: “è come un faro o qualcosa del genere.”
La caratteristica più studiata è il maschilismo di Charlie. La sua persona sta affogando in un mare di debolezze ma all'autrice si concentra sul suo machismo.
Fondamentale è la composizione del gruppo: più donne che uomini.
Le donne non possono tenere i soldi, devono frugare nei rifiuti per trovare qualcosa di utile per la fattoria. Gli uomini devono mangiare prima di loro. Le sue frasi sono perentorie: “piccolo cervello di donna”, “non ho chiesto la tua opinione, ho chiesto le tue tette”, fino al demoniaco: “essere picchiata dall'uomo che ami non è diverso che far l'amore con lui.” Perfino l'emancipazione orgiastica ha una sua scala maschilista.
Sullo sfondo di Manson ci sono gli anni sessanta negli Stati Uniti. Sono gli anni della guerra in Vietnam, della ribellione, delle religioni orientali, degli hippy, del cinismo, dell'indifferenza, della libera sessualità, delle iniziazioni erotiche, del LSD. La letteratura, il cinema, la musica nascondevano al suo interno una nuova disgregazione, l'abbandono del sapere e della socialità di un popolo. Arrivarono le bande, quelle motociclistiche, delle sette sataniche, del sincretismo religioso. Comportamenti appartenenti all'epoca, con dei risultati nefasti. Manson e i suoi seguaci sono il prodotto di questo mondo, della esaltazione della cultura maligna.
Questi aspetti sono studiati debolmente dall'autrice, essa li comprende ma le percepisce appena.
Il contrasto fra il passato e il presente è, stilisticamente rappresentato, nella dualità strutturale fra i racconti di apparente libertà nella setta e la loro prigionia. La loro presunta inesistente libertà nel ranch si collega alle inquadrature nella cella; due mondi diversi, due ricerche umane. Manson assorbiva le loro energie. Quando si riuniscono sono come degli adolescenti, le scene sono simili agli incontri degli alcolisti anonimi
Il linguaggio è una camera rapida, una velocità orgiastica, come i personaggi devono essere. I colori e i movimenti sono gli stessi, perché l'ambiente cinematografico è duplice. Dicotomico deve essere l'atteggiamento delle ragazze; due distinti stili sono essenziali, ma la differenza appartiene solo alle loro menti. Le donne sono ora imprigionate. Lo stesso accadeva nel ranch di Manson. Erano succube di regole su regole, dettate da un leader fascista. Eppure – è questo il tenore della pellicola – nella loro mente prima si sentivano libere. La libera scelta la nascondono per accidia dietro la ripetizione meccanica di un mantra, la iterazione del nome del loro guru: charlie says charlie says charlie says.
Ma la reiterazione non dipende da inesistenti manipolazioni mentali o lavaggio del cervello ma dalla destabilizzazione mentale principale: l'amore.
Il film è, per legittima preferenza culturale dell'autrice, totalmente al femminile, anche se il protagonista è un uomo, questa è la stranezza.
La vittima principale di Manson non furono le femmine ma un ragazzo: Tex Watson. Esso è completamente soggiogato, esso guiderà gli omicidi, esso è costantemente umiliato.
Ma nel film Tex è poco più di una insignificante comparsa. È la questione politica della storia, il film non è assolutamente una descrizione vera e reale. Per conoscere gli avvenimenti bisogna rivolgersi ad altri autori come a Ed Sanders.
Ed Sanders, uno dei produttori, è l'autore del libro che ha ispiratoil film: “La famiglia” di Charles Manson (Feltrinelli, Milano).
Il libro ha una analisi più complessiva, dettagliata, storico sociale del tempo, rispetto alla pellicola. Soprattutto analizza l'ambiente hollywoodiano ricco di stravaganze, con esagerazioni nell'uso della droga e nella dissolutezza. Era il background su cui si confrontava Manson, era la condizione sociale che anelava, con cui si scontrava, ma dal quale era rifiutato. Il ranch di Los Angeles County e Hollywood avevano più contatti di quello che si possa immaginare. È l'aspetto eluso dal film. Lo scontro della crescente tendenza parossistica della contro cultura di Hollywood versus le aspirazione della vanità egocentrica di Manson e delle ragazze.
(1) Silvia Bonino e Alessandro Salvini, Le sette: storie di «straordinaria follia»? In Psicologia Contemporanea, sett.-ott. 1991 n. 107, Giunti, Firenze