Che Guevara Regista: Mustapha Benghernaout
Che Guevara
Regista: Mustapha Benghernaout
Animazione: Taher Mohamed
Musica: Kevin Mcleoad
Provenienza: Algeria
Anno: 2021
Autore recensione: Roberto Matteucci
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“No one knows what goes on inside a hospital room, until they are locked in.”
Ernesto Guevara detto “Che” è la leggendaria figura della rivoluzione cubana. Il suo pensiero sull'internazionalismo proletario è raccontato nel libro Guerrilla. Che Guevara descrisse l'organizzazione della guerriglia di liberazione basata sulla esperienza cubana. Un capitolo è dedicato agli ospedali, luoghi essenziali sia in guerra, sia in pace. Che Guevara scrisse: “... si stabiliscono ospedali con le migliori comodità …” e soprattutto devono essere integrati con l'ambiente: “... non sono più soltanto luoghi di cura e di convalescenza, ma sono anche centri in contatto con la popolazione civile, sulla quale gli igienisti esercitano la loro funzione orientatrice.” (Che Guevara, Guerrilla, Mondadori, Milano, I edizione Piccola Biblioteca Oscar, giugno 1996)
Principi basilari: ospedali comodi, vivibili, con cure adeguate, con convalescenze serene, in contatto con la popolazione, fino a essere il centro locale dell'assistenza. Perciò intitolare un ospedale a Che Guevara è una scelta oculata e culturale e dovrebbe essere un esempio, il primo a rispettare i fondamenti sanitari.
L'ospedale di Mostaganem è dedicato al rivoluzionario cubano. Mostaganem è una città Algeria situata sul Mar Mediterraneo.
In questo nosocomio nel 2019 fu ricoverato per diciotto giorni il giovane filmmaker algerino Mustapha Benghernaout. Mustapha Benghernaout ha voluto esprimere la sua visione intimistica da una branda dell'ospedale nel cortometraggio Che Guevara.
In sei minuti riesce a narrare una sofferenza ospedaliera, la quale trascende il dolore fisico per raggiungere la tristezza e la solitudine in un luogo inadatto al trattamento medico.
Schermo nero, rumore diegetico fuori campo. Nell'ospedale Che Guevara in uno squallido bagno sporco un rubinetto aperto scarica l'acqua in un secchio.
Stacco. Il bagno lurido è sostituito con un primo piano di una goccia di sostanze liquide, la quale lentamente cade in una flebo. Si vede la camera, non si vede il malato. L'interno della stanza è malmesso, incerto. È un ambiente cadente, scrostato. Non ci sono esseri umani ma si odono delle voci fuori campo, è la concretezza di corridoi e corsie animate e chiassose.
È l'inizio del corto. Il degente non è grave, ha un problema serio ma risolvibile con una terapia idonea. Partecipando a una partita di calcio sulla spiaggia ha un incidente al piede. Fu curato con superficialità pertanto si aggravò.
La causa del ricovero non è l'argomento del film.
Il protagonista è il paziente con la ferita al piede, la telecamera è il suo occhio, la sua mente, la sua percezione della vita.
Il personaggio non ha una fisicità, ha solo un piede fasciato. Però ha un carattere preciso durante la sua esperienza ospedaliera. Sicuramente si sente debole per la ferita, ma, forse, soprattutto per la noia. È diffidente con la disarmonica quotidianità circostante. Nell'ospedale mancano i fattori essenziali d'ordine e coerenza. Ma è forte e mite contemporaneamente. La sua lucidità intellettuale è capace di lanciare delle esatte accuse, ma senza rabbia. Forse è esclusivamente un malinconico ottimista.
La sua personalità appare con chiarezza artistica dalle sue inquadrature.
È una pellicola realista ma non è un documentario. Infatti, il montaggio, la visione soggettiva e gli angoli utilizzati nelle riprese, creano finzione, immaginazione e smania di libertà.
La conferma è nell'inquadrature delle fonti di luci, come il neon nella stanza buia. Ovvero la luce solare della finestra. La finestra è una sequenza ripetuta, ha una funzione nostalgica. Consente al malato di osservare il mondo estero. La gente cammina, parla, festeggia la vittoria dell'Algeria nella coppa d'Africa con canti e slogan. È una vita normale ma agognata dal protagonista in quel momento. Il desidero di compiere quei gesti banali appare come un miraggio. Le riprese hanno sempre una linea esatta e regolare, non c'è una parola dal protagonista, l'unico suo segno è il piede bendato.
Eppure la rabbia esiste in un ospedale. Se al dolore fisico si aggiunge l'isolamento, l'abbandono e la noia, l'esplosione è ovvia. Pure in questo caso il filmmaker usa le voci fuori campo. Sono due scene drammatiche, obliano la mente e la ragione.
Nella prima un degente urla, bestemmia, offende, maledice. Le imprecazioni sono il conflitto della struttura del film. Le sue grida sono una emozione intensa, trafiggono l'animo nelle camere al buio: “I have never cried in my life, but i have cried in a hospital.”
La seconda dura qualche istante. Una donna ha perso il figlio è il suo pianto è infinito. È la colonna sonora del finale.
Mustapha Benghernaout però ha un sentimento d'inquietudine ed è questo il suo colpo di scena. La telecamera rientra nei pertugi dell'ospedale e con mestizia inquadra le brutture dell'edificio. Forse i dottori e il personale sono professionali e preparati, ma le rotture, la sporcizia, il decadimento, imprimono il senso di una scarsa attenzione gestionale. Qualcosa non funziona, può un malato essere lasciato al caldo, senza condizionatori, con gabinetti sporchi, con impianti di materiale scadente? È questo il luogo di cura e di convalescenza di cui parlava Che Guevara? Probabilmente no. È il tema sociale dell'autore. Una accurata ed esaudiente critica in pochi minuti, con immagini eloquenti, senza bisogno di dialoghi.
Inoltre, il regista adopera un'altra tecnica rinforzativa del suo pensiero: l'animazione, con due frammenti montati all'interno della pellicola. Sono delle animazioni con sfondo nero. Dei segni, delle immagini sfuocate e colorate si muovono autonomamente sullo schermo. Le immagini sono una rappresentazione immaginifica e terrorizzante di un ospedale. Nell'animazione ci sono disegnate mosche, vermi, forbici, bisturi, tagli, suture e tanto sangue. Ci sono delle operazioni sanguinolente. È il rafforzativo delle scene. Aggiunge il conflitto tecnico visivo ma c'è innanzitutto una sintonia perfetta con le riflessioni dell'ammalato. Sono forse la narrazione dei sogni del protagonista nel mese di ospedale?
Il regista ama i dettagli, i particolari per poi allargarsi sulle immagini. Gli oggetti sono pochi, la sua sensazione della realtà è minimalista. Il malinconico ottimismo arriva dalla finestra aperta. Un sasso gli impedisce di chiudersi. Sul davanzale un simpatico gatto con la testolina sta sbirciando nella stanza curioso, si guarda intorno con occhietti vispi, cerca l'amicizia del protagonista.
L'elemento sociale provoca tensione, aspettativa, mentre quello intimista ha una morale etica. Entrambe i si intrecciano con la componente onirica dell'animazione. La sublimazione del racconto è delineata: la sofferenza non è una condizione divina, trascurare gli ospedali e i malati è un delitto sacro e profano: “Noi non abbiamo rilevato il Corano perché tu patisca, bensì come ammonimento a chi teme”. (Corano, Sura 20, v. 2-3)