Mawlana - The Preacher Regista: Magdy Ahmed Ali
Mawlana - The Preacher
Anno: 2016
Regista: Magdy Ahmed Ali
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Egitto
“You are a star, a real star.”
L’11 dicembre 2016 una bomba è esplosa nella cattedrale copta San Marco del Cairo. I morti sono stati venticinque e i feriti trentacinque. I cristiani copti sono circa il 10% della popolazione egiziana.
Le difficoltà dei cristiani in Egitto sono state notevoli dopo la rivoluzione araba, la caduta del presidente Mubarak e la salita al potere del leader dei fratelli musulmani Mohamed Morsi. Moltissimi attentati, maltrattamenti hanno colpito i cristiani nell’indifferenza mondiale e del presidente Obama, nell’omissivo discorso all’università del Cairo nel suo viaggio in Egitto nel 2009.
Con il colpo di stato e la presidenza di Abdel Fattah al Sisi sono stati ripristinati i valori minimi della difesa per i cristiani, e quest’attentato è chiaramente un tentativo di dividere il nuovo governo egiziano.
Il giorno prima, il 10 dicembre, con una tempestiva casualità, al 13° Dubai International Film Festival è stato presentato il film The Preacher – Mawlana del regista Magdy Ahmed Ali.
L’imam Sheikh Hatem – per un favore a un importante uomo politico – ottiene di partecipare a una trasmissione televisiva religiosa. È il predicatore.
Il successo popolare di Sheikh Hatem è rapido e vasto. È giovane, brillante, simpatico, allegro, affabulatore, buca lo scherno. Parla di temi religiosi in forma intelligente ironica positiva. È il contraltare del nascente fondamentalismo e dei predicatori rabbiosi e cattivi.
Come tutte le star televisive cura l’immagine e il business.
Sposa una bellissima donna, ha un figlio. Controlla il rapporto con gli sponsor, con gli ambienti bene, guadagna tanti soldi, possiede una bella casa, una vita brillante.
Lo stile retorico è chiaro, diretto, immediato. La gente capisce il messaggio, coglie l’interpretazione dei testi, perché li rende semplici, con un’astuta retorica li collega a delle metafore, delle allegorie, delle battute intelligenti. Il successo è ampio, firma autografi, lo fermano per strada, tutti lo conoscono.
Qualcosa si rompe nella vita familiare. L’amato figlio ha un incidente ed entra in coma. La moglie depressa dalla disgrazia si allontana dal marito, diventa fredda e trasloca con il bambino all’estero per curarlo.
Perfino nel lavoro accadono delle complicazioni. Di conseguenza la struttura del film subisce delle modifiche. Ora siamo di fronte a immagini più dure, il genere si trasforma in thriller, in noir, pur mantenendo la premessa divertente.
Il figlio del presidente vorrebbe incontrare Sheikh Hatem. Un amico fissa un incontro dopo la fine di una partita di calcio. Vorrebbe un aiuto per risolvere un pesante problema familiare.
Il cognato Hassan, giovane, erede di una ricchissima famiglia, ha un problema religioso. Sheikh Hatem annuisce pensa di aver capito, ammicca, si sta avvicinando al fondamentalismo. Ma il problema è più spiacevole. Cosa ci può essere di più angoscioso? “He becomes Christian.”
Sheikh Hatem sbalordisce, sì il problema è gravissimo, essere un integralista musulmano è niente in confronto al pensiero di abiurare.
È forse l’ultimo momento d’ironia.
Qualcosa di funesto sta accadendo in Egitto.
Un imam attacca i sufi e ordina la loro cacciata. Il mentore di Sheikh Hatem è un maestro sufi. La casa, nella quale sono radunati i sufisti è attaccata, bruciata e i membri uccisi.
Lo stesso accade per i cristiani, un gruppo di convertiti si raduna in un garage. Fra essi c’è Hassan, il quale nel frattempo ha cambiato nome in Boutros – in arabo Pietro.
Sono perseguiti dalla polizia, malmenati e incarcerati.
La situazione peggiora anche personalmente, le spinte sono tante.
Lo vogliono silurare, lo incastrano.
Fino a quel momento aveva assunto una posizione moderata, aveva espresso delle interpretazioni antifondamentaliste, però sempre equilibrate.
Solo di fronte al peggioramento della situazione sociale, l’incremento della violenza e il dolore per la morte del suo maestro, assume un atteggiamento più deciso in difesa delle minoranze.
Giustifica gli sciiti: “Shi’a sono musulmani, Islam is islam.”
Esprime dolore per la morte orribile del maestro sufi mostrando il video della loro aggressione mortale.
Il peggio deve arrivare. Una bomba scoppia in una chiesa copta. La reazione è impetuosa. Per fermare le rivolte dei cristiani, gli imam del Cairo sono chiamati a incontrare i religiosi copti. Ecco, il reale copia l’arte, raccontando un fatto di attualità.
L’ultima predica di Sheikh Hatem è proprio nella chiesa. Abbandona il tono allegro, la battuta facile, il wit ironico, è triste ma i cristiani all’interno lo capiscono, siamo tutti egiziani, non ci sono musulmani o cristiani.
Un film non facile sia perché terribilmente attuale, sia perché il tema religioso è affascinante ma anche pericoloso e suscettibile.
Il regista ha le idee chiare, le mostra, si schiera apertamente. È onesto, non vede un unico colpevole:
“This is not an accusation of Mubarak’s regime, it is a way to confirm that we are all responsible for this saddening event: those who spread fanatical ideologies, those who do not combat fanatical ideologies or simply decided to overlook them, and the authorities who allowed extremists to use mosques as platforms to spread their ideas. In short, all those who kept quiet or simply went with it. I consider myself to be responsible for this explosion, like many other Egyptian intellectuals who were overly tolerant towards islamist movements. We cannot wait for a disaster to occur before we finally react.” (1)
L’autore preferisce il campo medio, il primo piano del predicatore, con particolare riguardo al sorriso smagliante e ironico. L’imam Sheukh Hatem è sempre dentro la pellicola. Affabile divertente, prima coglie i vantaggi del successo poi si rende conto delle sue sventure e quelle dell’Egitto. Perciò la recitazione di Amr Saad muta, più nervosa, più inquieta. Il regista non abbandona il suo carattere, rinchiuso dalla polizia in una stanza, piscia di fronte il vetro nascosto, dietro al quale i poliziotti lo stanno guardando.
I toni e l’andamento veloce, i dialoghi vivaci e spiritosi, i confronti televisivi, quelli con Hassan (il bravissimo attore Ahmed Magdy) sono mischiati con altri più dolorosi, come l’infortunio del figlio, la distanza della moglie, la morte del maestro, gli attentati. È la rappresentazione dell’Egitto. La gioia della rivoluzione popolare in contrasto con la vittoria degli islamisti di Morse, il colpo di stato, gli attentati dell’Isis, e le minacce continue.
Quello è l’ambiente di Sheikh Hatem, un mondo non facile perché quelle accettate sono solo parte delle provocazioni.
Inoltre si può leggere il film come un’importante discussione sulla popolarità della televisione. La vita di Sheikh Hatem muta quando da locale imam si trasforma in famoso e apprezzato imam televisivo. Il mezzo cambia le persone, i comportamenti. Si può pensare hai tanti predicatori televisivi nei canali americani. Il pensiero è tramutato in un messaggio pubblicitario, segue le stesse pause e le stesse parole. La fama di un imam varia se appare in un media. Ma se invece di un brillante Sheikh Hatem fosse stato un integralista?
Un peccato per i sottotitoli, non chiari, troppo veloci, di dubbia traduzione, non perché conosco l’arabo ma perché il pubblico degli emirati, lo comprendeva, rideva alle battute mentre io non capivo il senso.