Only Men Go to the Grave – Al-Rijal Faqat End Al-Dafn Regista: Abdulla Al Kaabi
Only Men Go to the Grave – Al-Rijal Faqat End Al-Dafn
Regista: Abdulla Al Kaabi
Provenienza: Iran; UAE
Anno: 2016
Autore Recensione: Roberto Matteucci
“It is not important to know everything.”
Dopo una disgrazia, un omicidio, un suicidio, i giornalisti intervistano parenti, amici, vicini di casa. Le risposte sono sempre piene di stupore, increduli sugli avvenimenti macabri. Accade perché manteniamo due identità, una privata e una sociale.
Lo stesso succede nel film Only Men Go to the Grave del regista degli Emirati Arabi Abdulla Al Kaabi presentato in prima mondiale al 13° Dubai International Film Festival.
Il regista in una intervista:
“We have a saying, houses are full of secrets. A lot of people can relate to this partly because most Arabs live double lives where they have a persona in the house that is completely different from the persona in their social settings among friends or the outside world. They become experts in leading double lives.” 1
Non è un fenomeno esclusivo del mondo arabo ma del mondo intero.
Da questa idea nasce la trama della pellicola, la storia di una donna cieca in un ambiente difficile, terribile soprattutto per le donne:
“I wanted to bring that across. In the story, you have a woman who pretends to go blind to see who her children really are. I wanted to show that family love is different from the restrictions society places on us, because it’s human. I wanted to show the human condition of motherly love.” 1
Ghanima ha lasciato da anni la casa natale. In quel paese dell’Iraq continuano a vivere l’anziana madre cieca e la zia Arfah. Riceve una telefonata della zia, la madre sta morendo e prima vorrebbe incontrare le figlie per raccontargli un segreto.
Immediatamente Ghanima la raggiunge. Arriva il tempo di vederla cadere – per un brusco movimento - dal terrazzo di casa. È ancora viva ma nel buio è investita dalla macchina guidata da Jaber il marito di Ghanima.
Una morte involontaria, improvvisa, e soprattutto senza svelare il mistero.
Nel tempo del lutto dei tre giorni, nella casa riappaiono storie tenute nascoste per anni. Ghanima rivede con stupore la sorella, era convinta che avesse lasciato la casa.
Anche la sorella – senza marito – ha un segreto, nasconde il figlio adolescente in casa. Ma c’è molto di più, si scoprono fatti celati molto più scandalosi. Abdulla Al Kaabi – regista e autore della storia - non racconta apertamente ma accenna senza lasciare dubbi all’inconfessato della famiglia. Arrivano altre donne, raccontano di episodi condivisi con la madre, l’innominato tema è percepito chiaramente ora.
La cupezza della storia della parte finale non deve impressionarci, perché il regista è molto bravo e intelligente a riempire gli avvenimenti con momenti diversi.
Alcuni periodi sono divertenti e ironici.
La morte della madre, nella casualità richiama tanti film americani come quelli dei fratelli Coehn.
Ovvero quando le donne arrivano numerose a piangere la morta, urlano, sbraitano, si lamentano, ma nessuna di esse la conosce, confondendola con altre: “In questo funerale non c’era nessuno triste.”
Ovvero l’apparizione di una parente esuberante e chiassosa, la quale non ricorda i nomi delle figlie, ma è giura di averle allevate.
La casa è circondata da un colore scuro, nero, come se fosse pervasa di qualcosa di sovrannaturale. Le tende delle finestre sono il sipario di avvenimenti occultati.
Il regista racconta qualcosa di più.
Racconta una storia totalmente al femminile. Per le conseguenze della guerra Iraq/Iran nella famiglia ci sono solo donne, gli uomini sono morti. C’era un particolare stonato per completare la totalità, il marito Jaber. Ma poi abbiamo l’interezza quando lo osserviamo mentre esibisce sensualmente la sua passione nel vestirsi da donna.
Che cosa è accaduto fra tante donne rimaste senza uomini?
Che cosa è accaduto fra la madre e l’amica sconosciuta arrivata a salutare la donna morta?
È il tema difficile da affrontare, raccontato con molta cautela dal giovane regista ma nello stesso tempo con molto coraggio: l’omosessualità femminile.
“It’s not the story that’s the issue, it’s the way you tackle it. I tackled it, bearing in mind that I’m going to show it in our community, in this part of the world,” he says. “In the end it’s a story. There’s no nudity, there’s no pornography, there’s no violence. There’s just is a lot of silence. And that’s the power of cinema. You can open a dialogue without making anyone feel uncomfortable.” 2
Infatti, il regista elimina immagini forti, urlate, tanto care ai molti registi occidentali smaniosi di strepitare il loro vittimismo.
L’autore dirige il film con molta autorialità, ricercatezza nelle immagini, ogni inquadratura ha una bellezza di fondo. Abbiamo un film frammentato, a scatti, ma le immagini sono riflessive, statiche, come delle scene teatrali. Gli attori si mettono in posizioni, come per esaltare la femminilità: in una scena le tre donne danno le spalle all’unico uomo della famiglia.
Il segreto della famiglia stava nella cecità. Alla madre la vita gli offriva solo sofferenze, miseria, morte, odio, la condizione delle donne in Iraq, la guerra, e l’amore nascosto per altre donne. Perciò non aveva tante soluzioni, l’unica possibilità era – come Pirandello in Enrico IV - non vedere nulla, e nascondere tutto in una grande casa oscura.