Nobi - Fires On the Plain Regista: Shinya Tsukamoto
Nobi - Fires On the Plain
Regista: Shinya Tsukamoto
Cast: Shinya Tsukamoto, Lily Franky, Tatsuya Nakamura, Yûsaku Mori, Yûko Nakamura, Dean Newcombe, Hiroshi Suzuki, Masato Tsujioka, Hiroshi Yamamoto
Provenienza: Giappone
Anno: 2014
Autore Recensione: Roberto Matteucci
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“Ucciditi!”
Il regista Shinya Tsukamoto è creatore d'impetuosi film. La sua fama inizia con Tetsuo, la trasposizione in immagini di uno dei traumi del corpo umano: congiungersi, essere parte unica con una macchina, con pezzi di un robot. È un incubo angosciante, creato dalla nostra mente ossessionata.
Pensiero diffuso nella cultura del Giappone moderno, basti pensare a tanti manga ovvero a Yukio Mishima e al suo viaggio su un F 104 descritto in Sole e Acciaio (Taiyō to tetsu, Guanda Editore, Parma, II edizione, luglio 2004).
Lo stesso linguaggio Shinya Tsukamoto lo usa per una nuova stravolgente storia, la quale deforma le nostre convinzioni. Alla 71. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, presenta Nobi - Fires On the Plain.
Shinya Tsukamoto in questa intervista descrive di un incubo reale, qualcosa di concretamente accaduto, e incredibilmente, nessuno può escludere una sua ripetizione nel futuro:
“Credo che Nobi sia un intero film-incubo, quindi a prendere il sopravvento qui è decisamente il sogno. L’incubo a cui mi riferisco, però, paradossalmente è anche qualcosa di realmente accaduto, cioè il secondo conflitto mondiale. Considerando che per lunghi periodi in Giappone si smette di ricordare la tragedia della guerra, volevo restituirla sul grande schermo, in tutta la sua drammaticità, nel suo carattere di incubo a occhi aperti. La violenza esplicita di molte scene ha proprio l’intento di indurre gli spettatori a odiare la guerra.” (1)
La visione mostruosa è la guerra. Per i giapponesi vuol dire la nefasta seconda guerra mondiale. Nel 1942 il Giappone ha conquistato le Filippine dagli americani. Nel 1945 saranno cacciati. Per la struttura geografica delle Filippine, molti soldati nipponici rimasero isolati, bloccati nella giungla. L’ordine era di unirsi alle ultime resistenze militari a Cebu. Ma la ritirata fu un massacro. I giapponesi erano già denutriti, senza rifornimenti da lungo tempo.
Questo episodio è narrata da Shinya Tsukamoto nel suo stile, nel suo linguaggio, nella sua interpretazione apocalittica, sopra le righe. Esageratamente, non ci risparmia nessuna sfumatura. Anzi, il regista riesce a sconvolgere entrando nel dettaglio, trascinando nelle piaghe putride insieme alle mosche o ai vermi, ottenendo il successo di provocare delle reazioni inumane.
Il crollo del Giappone è imminente. In un piccolo distaccamento, all'interno della foresta, un soldato sta male, soffre hai polmoni. È lurido, stanco, deturpato, denutrito; è disgustoso. È ributtante perfino per l’ufficiale, il quale lo scaccia. Non hanno cibo allora gli consegna un paio di patate malandate, l’unico alimento disponibile.
Allucinato, sfinito, è incapace di reagire, di ribellarsi, si presenta all’ospedale. È una capanna nella giungla. Un luogo scoraggiante poiché è il simbolo dello orrore e dello sfinimento umano. Induce nausea, repulsione, ripugnanza. L’ospedale è immerso nel sangue rosso sporco. I soldati feriti sono curati senza medicine, senza igiene, senza anestesia. Il dottore interviene a mani nude inserendole negli squarci. Il sangue schizza sullo intero schermo. Fra i degenti scoppia uno scontro per il cibo. Hanno fame, sono diventati dei fantasmi, il senso di sopravvivenza li spinge a compiere gesti infami.
Il regista lo racconta con una camera impazzita come il senno umano. La telecamera si muove a zigzag, si getta nelle persone, mostra le sfumature abominevoli.
C'è il miserabile tentativo di moltissimi soldati disgraziati, soli sommersi da una vegetazione dominante, a raggiungere Cebu l’estrema linea di difesa organizzata dei giapponesi. La guerra è allucinante, schizofrenica, deprime la coscienza dell’esistenza, rende fetidi. Espone il regista:
“Nei film occidentali siamo però abituati a rappresentare anche la guerra in maniera diversa. Su questo tema la franchezza non è solo in Occidente ma anche in Giappone. I film sulla guerra vengono trattati o in chiave eroica, con l’esaltazione di determinate figure, o dei melodrammi strappalacrime. Io trovo che sia un’assurdità perché la guerra andrebbe sempre rappresentata nella crudezza e nel suo orrore.” (2)
Ma è il contrario. La guerra di Shinya Tsukamoto è eroica.
Infatti, i reietti soldati giapponesi in fuga, privi di viveri e mezzi, sono un gruppo di eroi. Lottano oltre ogni umana possibilità per restare vivi, sebbene intorno ci sia solo morte, disperazione e pazzia.
In Nobi, la musica riempie le sequenze. La camera e il taglio delle inquadrature hanno una vita propria; attori e ambientazione si spostano freneticamente e senza controllo. Non c'è neppure pietà per quei soldati senza dignità e fattezze umane.
L’estremo sforzo di arrivare a Cebu si trasforma in una passeggiata nell’inferno. Una purificazione spirituale. La carne dei soldati è elevato nella sua spiritualità:
“Nei miei film, il corpo umano diventa un oggetto e così è anche sui campi di battaglia. E così come la gente pensa che i miei film siano spesso eccessivi, lo stesso vale anche per la guerra. Questo era un film che dovevo fare, per parlare ancora una volta del corpo umano e della sua sopravvivenza”. (3)
Invero, è il corpo dei prostrati soldati a essere oggetto dell’attenzione dell'autore nel finale. Appare il cannibalismo. I sentieri sono pieni di carcasse, in numerose scene crudeli ci sono ovunque pezzi di uomini, e benché siano smembrati, ancora tentano penosamente di vivere.
In realtà sono dei spettri, dei cadaveri. Sembrano degli zombie perché sono senza forze, camminano nel dolore e nell'avvilimento. Perdono le viscere, le budella, l’intestino; gambe e bracci sono amputate di netto e abbandonati mentre, ciò che rimane del corpo, continua a lottare.
Neppure le sanguisughe e i vermi impediscono il desiderio di salvarsi. Nonostante la morte preannunciata, le sofferenze, la denutrizione, c’è addirittura qualcosa di più minaccioso a spaventarli. Fra gli sventurati circola una indiscrezione, un abominio. Non è la morte, c’è qualcosa di peggio.
Fra i pochi superstiti, una voce è sussurrata con angustia: numerosi per rimanere in vita si cibano di carne umana, delle carogne dei loro compagni di armi.
Il cannibalismo è l'elemento unificatore del finale. L’antropofagia è una metafora della situazione del Giappone al termine della seconda guerra mondiale. Manca poco al lancio delle due bombe atomiche e alla prima invasione straniera dell’arcipelago. Le distruzioni sono tante e le ferite non sono esclusivamente fisiche ma soprattutto morali. La sconfitta è vicina e la popolazione è convinta, con l’arrivo degli americani, di essere uccisi e disprezzati nel corpo e nella tradizione.
Il numero dei suicidi sarà enorme con lo sbarco del generale Douglas MacArthur. A terrorizzarli è la scomparsa di un mondo millenario.
Shinya Tsukamoto è cattivo con lo spettatore. Siamo consapevoli: la guerra è dura, è spietata e l’autorevole artista giapponese c’è lo ricorda con classe. Tutto è costruito con idee chiare e precise. Nulla è lasciato al caso grazie alla realizzazione continuamente angustiante della vita. È un bagno di tristezza e malvagità.
(1) http://carnagenews.com/venezia-71-intervista-esclusiva-shinya-tsukamoto/
(2) http://farefilm.it/persone/intervista-shinya-tsukamoto-nel-mio-film-c-il-vero-orrore-della-guerra-1315
(3) www.everyeye.it/cinema/articoli/nobi-shinya-tsukamoto_intervista_23532
Alla fine della seconda guerra mondiale, la distruzione del Giappone, dopo il lancio delle due bombe atomiche, aveva raggiunto l'apice. Non era solo una catastrofe umanitaria. Non era solo la devastazione materiale del paese.
Il regista giapponese Shinya Tsukamoto propone, con il suo stile crudele ed esagerato, una originale visione dell'epoca e soprattutto lancia l'ennesima freccia antimilitarista nel cinema internazionale.
Alla 80. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia presenta il film Hokage - Shadow of Fire – Ombra di fuoco sconvolgendo per la semplice rappresentazione di un dolore ancora presente e da elaborare, benché siano passati numerosi anni.